MILANESE COSIMO

nuova puglia d'oro_total white

MILANESE COSIMO

Lucania_d_oro bianco

Veglie 1° maggio 1926 – Matera 25 marzo 2005

Primo medico Diacono permanente della Chiesa Cattolica.

Cosimo nasce alla fine degli anni Venti in un paesino della provincia di Lecce. La famiglia, appartenente alla media borghesia, possiede numerosi beni, tra terreni agricoli e immobili urbani. Orfano del padre in tenerissima età, Cosimino riceve la cura e l’affetto di una madre amorevole che sogna per il figlio uno splendido avvenire. Il giovinetto, però, presto la delude: si sente chiamato alla carriera sacerdotale e non c’è verso per fargli cambiare idea. Obtorto collo, la madre si rassegna alla ferrea volontà del figlio e acconsente a mandarlo in seminario a Brindisi.

Dopo il periodo brindisino, l’aspirante sacerdote si trasferisce nell’istituto di Ostuni. Affronta gli studi umanistici ed ecclesiastici con grande serietà e col massimo impegno, eccellendo nella lingua latina e greca. Nei brevi periodi di vacanza, torna a casa già con l’abito dei seminaristi. La madre, ormai rassegnata, pregusta il momento della sua ordinazione.

Un’altra delusione è però alle porte: il giovane, forse ammaliato dallo sguardo penetrante di una gentile ragazza, che lo colpisce mentre sta servendo messa, o perché è già maturato in lui un nuovo progetto di vita, con la stessa determinazione con cui aveva scelto il seminario, decide di rinunciare alla carriera precocemente intrapresa.

Non per questo abbandona la vocazione della fede e la volontà di seguire gli insegnamenti della Chiesa. La preghiera e la meditazione sulle Sacre Scritture, accanto ai molti interessi culturali, non saranno mai più abbandonate. Dopo gli esami di convalida degli studi fatti in seminario, consegue brillantemente la maturità classica e s’iscrive alla facoltà di medicina. Nel frattempo, però, Ferdinando, il fratello minore, pur essendo d’indole bonaria, tra il gioco e le belle donne, trova il modo per dissipare gran parte del patrimonio familiare. Cosimo, preso dall’affetto per il congiunto e dalla volontà di salvare il più possibile i beni della famiglia, trascurando gli studi prediletti, accetta di associarsi a lui nella gestione di una cava di tufi.

In circostanze avventurose, conosce una dolcissima ragazza e, con la determinazione che lo contraddistingue, la porta in breve tempo all’altare. Nascono già i primi pargoli, tra cui il nostro futuro autore. Le attività economiche, se all’inizio registrano momenti di vera fioritura, col modificarsi delle condizioni edilizie, nonostante l’impegno e la capacità gestionale che Cosimo ha sapientemente profuso, ben presto vanno incontro a perdite irreparabili. Il fratello, anch’egli convolato a nozze, a causa di dissapori coniugali, conduce una vita travagliata. Il sodalizio non può che volgere al termine. Anche gli studi sono definitivamente interrotti.

La famiglia, unita nell’amore di una madre premurosa, per salvaguardare la propria onorabilità e soddisfare i creditori, è costretta a vendere buona parte delle proprietà. Perde così una fetta consistente delle rendite, ma conserva decorosamente la dignità e l’onorabilità che le appartengono. Cosimo si rende subito conto che bisogna darsi da fare per procurarsi il sostentamento per la propria famiglia, che intanto continua a crescere.

È disposto a fare qualsiasi lavoro pur di portare a casa il “pane” per i propri figli. Gli offrono un posto da inserviente in un ospedale di Caserta che è ben disposto ad accettare. Prima però vuol recarsi a S. Giovanni Rotondo per assistere alla messa di Padre Pio. Il frate lo confessa e gli predice un futuro migliore: “Non arrenderti figliolo” – lo ammonisce – “credi in te stesso”.

Sarà stato il consiglio del religioso, o il vivissimo sentimento della propria dignità, o entrambi i fattori a sollecitarlo: subito decide di riprendere gli studi di medicina.

La mamma lo incoraggia e gli procura con ogni mezzo il denaro per le tasse arretrate. La sua prodigalità verso il prossimo non tarda a dare i suoi frutti: un frate, che egli ha aiutato in precedenza, lo indirizza in un convento di francescani di Bari che gli permettono di dimorare in una cella del convento, fino al termine degli studi. Torna a casa ogni sabato in bicicletta, dopo una corsa di oltre sessanta chilometri. Non si concede un solo minuto di riposo. Frequenta tutte le lezioni e studia “giorno e notte”.

In meno di tre anni, a dispetto delle malelingue, tra cui l’invidiosa zia Elvira, consegue l’agognata laurea. Segue a breve l’esame di stato e si abilita alla professione di medico. Qualche collega, per eliminare un probabile concorrente, gli consiglia la carriera ospedaliera. Però prima di decidere sul da farsi, acquista la prima 600 e, allo scopo di far respirare un po’ d’aria di montagna alla piccola Gabriella, parte con tutta la famiglia alla volta di Calvera, un paesino in provincia di Potenza, col proposito di fermarsi solo per qualche settimana.

In paese manca il medico condotto. Subito gli viene offerta la possibilità di fare le prime esperienze professionali. Accetta volentieri, pensando di trattenersi al massimo qualche mese; ma l’aria salubre del posto, l’accoglienza benevola dei paesani, l’affetto e la stima che i pazienti gli manifestano, convincono tutta la famiglia a fermarsi per tutto l’anno.

Nello stesso tempo, anche le condotte dei paesi vicini sono prive del titolare sanitario, e una moltitudine di pazienti, che egli si compiace di seguire senza risparmio di energie, lo accoglie con grande benevolenza, fino a tributargli profonda venerazione. Si sottopone a un supplemento di lavoro che gli costa, sì tanto sacrificio, ma gli dà infinite soddisfazioni, sia sotto il profilo professionale, sia nelle relazioni umane. Quella breve vacanza, che sarebbe durata solo alcuni giorni, si protrasse per oltre dieci anni.

Da queste brevi note, emerge nitido il carattere e la personalità del protagonista. Il primo elemento che lo contraddistingue è la sua profonda spiritualità religiosa. La vocazione che gli aveva preso l’anima nei primi anni di vita, non lo abbandonerà mai più, e tutta la sua esistenza sarà segnata dalla fede incrollabile in Dio.

Essa non è vissuta come risolutrice totale dei tanti problemi che la vita ci riserva, ma è intesa come segno del prodigioso potere divino; non cieca obbedienza alla volontà del Padre Celeste, ma come osservanza leale delle norme che la fede stessa prescrive: non è, pertanto, pura sottomissione o annullamento della propria entità di uomo, di padre e di cittadino.

La sua condotta di credente non si esaurisce comunque in una sterile e astratta esperienza mistica; anche se intensa, sofferta e carica di passione, si manifesta in un’infinità di atti concreti. Non esita ad arredare a proprie spese la piccola chiesa del paese, e a far erigere sulla collina soprastante una croce di ferro in onore della Madonna.

Si adopera senza riserve per coadiuvare il giovane sacerdote nella cura dei fedeli. Sono solo piccoli esempi delle tante opere che testimoniano la sua assoluta dedizione alla Chiesa. Il riconoscimento che il potere ecclesiastico gli ha giustamente tributato è averlo nominato, primo medico al mondo, Diacono della Chiesa Cattolica Cristiana.

Non è cieco fanatismo, il suo, ma ispirazione autentica del suo operare in campo civile e professionale. L’attività di medico è vissuta come missione, con la consapevolezza di appartenere a un’unica comunità di fratelli. Non esita a recarsi settimanalmente, a proprie spese, in un paese poco distante, a Carbone, per procurarsi i farmaci per i suoi pazienti. Non si fa pagare le visite, quando capita di sostituire i colleghi assenti nei comuni vicini. Se chiamato per casi urgenti, non esita ad intervenire anche in piena notte e in condizioni di cattivo tempo.

La sua infinita disponibilità verso tutti, come ho già accennato, non è il segno di un pietismo bigotto, ma servizio verso il prossimo, praticato con la coscienza di servire il Signore. Non esagero nel dire che ha osservato i precetti di Papa Francesco, cinquant’anni prima che siano stati declamati. Né è sbagliato averlo definito “un esempio di cristiano integrale”. Fu in sostanza una persona reale, con tutti i pregi e i difetti dell’uomo, ma sicuramente da additare, per il suo altissimo senso morale, come modello esemplare di dedizione verso il prossimo.

È agevole, dunque, capire come la grande personalità del protagonista, il suo modello di vita, per certi aspetti eroico, abbiano convinto Salvatore a sobbarcarsi la fatica di scrivere un libro di tale pregio e spessore.  Una personalità che ha lasciato infiniti segni della sua eccellenza non poteva rimanere nell’ombra agli occhi di un figlio devoto e riconoscente.

Una protagonista, non meno espressiva e centrale dell’opera, è la signora Pina, madre e sposa affettuosa. Anche se il suo profilo è poco definito, da essere lasciato quasi sullo sfondo, non per questo è assente nei pensieri dell’autore. Proviene da una famiglia benestante di San Pietro in Lama, in provincia di Lecce. Abbandona i suoi studi di canto e pianoforte, per sposare Cosimo ancora giovanissima. Fu un sacrificio non da poco. Poiché era portata per le materie musicali e canore, avrebbe certamente intrapreso una carriera di grande artista. Tuttavia, l’amore per il giovane marito, che la adora devotamente, e l’affetto per i pargoli che cura con amorevolezza infinita, le fanno presto dimenticare gli agognati successi.

Inizia per lei una vita dedita interamente alla famiglia; senza battere ciglio, è disposta a seguire il marito dovunque egli decida di andare. Mai un lamento, nessun rimpianto per aver lasciato la sua terra d’origine e trasferirsi in un remoto paesino di montagna, lontana dalle amicizie giovanili e dalla famiglia d’origine. Si prodiga senza risparmio a preparare tutto il necessario per rendere la vita, quanto più serena, a tutti i suoi cari. Ai piccoli, e non solo a loro, non fa mai mancare le leccornie più prelibate: torte, torroni, biscotti; specie nelle grandi feste di Natale e Pasqua, nelle quali dà il meglio di sé.

È sempre disponibile ad accogliere i numerosi ospiti che il generoso marito le porta in casa. Le poche amiche di cui può disporre negli anni “dell’esilio” di Calvera, le tratta con grande umiltà e affetto; dalle stesse riceve preziosa amicizia e gratitudine sincera. La fede in Dio è pari a quella che ispira il marito, di cui rispetta la convinzione che generare un figlio significa far nascere un’anima devota a Dio.

La sua personalità e la statura di protagonista non secondaria dell’opera, non si esprimono col mettere in mostra solo le doti di madre e di sposa fedele, ma sapientemente l’autore le fa intravedere quasi di soppiatto dietro le quinte.

È lei la vera regina della casa che tiene unita nell’amore tutta la famiglia. È una forza centripeta che si contrappone a quella centrifuga del consorte.

È la colonna portante su cui si regge tutto l’edificio familiare. Riesce a mitigare le astrusità di un marito “pazzo”, capace di donarsi completamente al prossimo. Se l’eroismo di Cosimo appare in tutta la sua grandezza, non meno profondo è l’esempio di Pina, donna e madre virtuosa.

Un altro protagonista non secondario, che agisce, quasi in incognito, in tutta la narrazione, è lo stesso autore, rivissuto negli anni della sua formazione. Non solo come voce narrante, ma compartecipe delle esperienze che condivide con tutti gli altri membri della   famiglia. Attento osservatore di tutto quello che avveniva intorno a sé, lo affascinavano le storie antiche che la nonna paterna, Nina, era solita raccontare ai nipotini che le si stringevano intorno.

Non ne perdeva una; soprattutto gli piacevano i racconti delle anime che “sciamavano nel cuore della notte” e dei morti che sbucavano dai cimiteri. Gli incutevano paura, ma gli davano una sensazione di piacevole ebbrezza. Registrava tutto nella sua mente. Ogni avvenimento era vissuto con tale partecipazione da non essere mai più dimenticato.

Quando i cuginetti si stancavano di ascoltare la nonna e correvano di corsa a letto, egli costringeva la “povera” donna a farsi narrare gli episodi più avvincenti vissuti dal papà in età giovanile. Era già presente in lui quel sentimento di ammirazione che non l’abbandonerà mai più. Col passare del tempo, diventa l’attore principale nelle relazioni con gli altri familiari. E’ lui che intrattiene rapporti con la zia Elvira, della quale subito intuisce la malizia e l’invidia che nutre verso la sua famiglia.

Testimone attento degli avvenimenti più importanti che segnano il cammino del padre verso la piena maturità, osserva ogni cosa e gioisce in segreto per i traguardi che il genitore riesce a raggiungere.  Fa di tutto per seguirlo ovunque. Ammira il suo lavoro. Gli dà una gioia immensa al solo pensiero di averlo vicino. Anch’egli, come il resto della famiglia, è costretto a lasciare amici e parenti al momento di trasferirsi a Calvera. L’inizio è davvero duro, ma subito si fa ben accogliere dai compagni di scuola e partecipare con loro alle marachelle giovanili.

Preoccupato e ansioso fino all’inverosimile, ma con la massima compostezza, il ragazzo assiste al doloroso travaglio che la mamma deve affrontare per la perdita di “Angela”, appena data alla luce. Parla poco, ma osserva, registra tutto nella mente, quasi a presagire che un giorno raccoglierà in volume le esperienze vissute. Un altro trauma subisce nel momento di allontanarsi dalla famiglia per seguire gli studi in collegio. Si sceglie un istituto nelle vicinanze di Lecce, anche per stare vicino ai parenti più stretti.

Rivive le stesse emozioni che provò nel lasciare, fanciullo, gli amici e il paese natio. Non c’è verso per rasserenarlo. È combattuto tra le rigide regole dell’istituto e la voglia di tornare con ogni pretesto in famiglia. Fortunatamente lo zio Ferdinando, ogni domenica lo tira fuori per portarlo a casa della nonna. Mamma e papà lo raggiungono ogni mese. Man mano che gli studi proseguono, si fa più sereno e consegue a pieni voti la maturità.

Numerosi sono i personaggi minori che compongono il ventaglio delle passioni e dei vizi umani. Con pochi cenni e con rapide pennellate, di ognuno lo scrittore disegna bozzetti e ritratti con acume inimitabile. Vi figurano la nonna affettuosa narratrice, lo zio accanito viveur, il farmacista cinico, medici senza scrupoli. Molti, tra i minori, completano il quadro arguto e parlante della vita di Calvera.

Rilevante è la figura della nonna che, per prima, gli trasmette il gusto di raccontare e di ascoltare storie. Con la saggezza che le deriva dalla vecchia cultura contadina, riesce a tenere unita tutta la famiglia. Trasmette ai figli l’amore e il rispetto per il lavoro, il valore del risparmio e la ripulsa dello spreco. Padrona Nina, vedova prematuramente, pur conducendo una vita agiata, era parca nello spendere, ma non lesinava mai un aiuto ai più bisognosi. Anch’essa, e per lunghi periodi, non fece mancare l’affetto e il sostegno alla nuora e ai nipoti nei momenti più difficili della vita a Calvera. Con la fede incrollabile in Dio, riusciva a infondere ottimismo e coraggio a tutti.

Solo il figlio Ferdinando le diede non poche preoccupazioni. D’indole libertina, fu presto coinvolto in imprese fallimentari. Dedito al gioco e alle cattive compagnie riuscì, suo malgrado, ad alienare gran parte dei beni di famiglia. Ma l’affetto e la stima per il fratello, l’amore per l’anziana madre riuscirono, infine, a riportarlo sulla retta via. In fondo anch’egli aveva   un residuo di nobiltà d’animo che gli derivava dalla sua progenie. Della zia Elvira, ho già fatto cenno.

Donna invidiosa e perfida, forse perché madre di una creatura ipovedente, soffriva per i successi che gli altri conseguivano. Non le bastava avere un figlio sacerdote, Don Pompilio; lui sì affettuoso e corretto verso i propri familiari.

Tra le persone con cui la famiglia a Calvera instaura buoni rapporti di amicizia, un posto predominante occupa il “cavaliere” Andrea. Un professore colto e spiritoso, “cordiale, curioso e ironico”, col quale Cosimo s’intrattiene in dotte conversazioni. Per ironia della sorte, la sua stessa morte avvenne in situazioni paradossali.

Preoccupato per la salute della moglie, confidò al missionario Padre Pellegrino, dotato del potere di prevedere il futuro, di temere di ritrovarsi presto vedovo. “Sei proprio sicuro che morirà prima tua moglie”? Gli chiese il religioso. Quella stessa notte il cavalier Andrea fu stroncato da un infarto.

Moltissimi altri sono i personaggi e gli episodi che arricchiscono la narrazione: il farmacista di Carbone, Don Antonio l’Americano, la maestra Concetta, Richetto, il prof. Gubitosa. Di ciascuno, come accennato, l’autore descrive caratteri e sembianze, ritraendoli con rispetto e simpatia. Un cenno a parte merita la figura di Don Fulgenzio, giovane sacerdote che alle sue prime esperienze pastorali ha bisogno dell’aiuto prezioso del dott. Milanese.

È una figura debole e ambigua allo stesso tempo. È schiavo della madre, attaccatissima al denaro, che stravede per il figlio. È esageratamente mistico e poco operativo. Ha sempre bisogno del sostegno di qualcuno, della madre o di Milanese. Nonostante avesse ricevuto tutto l’aiuto possibile dal suo benefattore, non gli fu mai riconoscente, fino a negargli il saluto il giorno della partenza da Calvera. Ancora una volta mi piace rilevare la bontà d’animo e la generosità del dott. Milanese; non gli portò mai rancore, né mai fece pesare l’ingratitudine nei suoi confronti da parte di quel giovane sacerdote: continuò a volergli bene e a decantarne le lodi.

Tratto dalle riflessioni di Domenico Lascaro (Miglionico agosto 2015) sul libro “Negli occhi di un figlio” di Salvatore Milanese.

Recensione di Domenico Lascaro al libro “Negli occhi di un figlio” di Salvatore Milanese

 

“Ho letto con estremo interesse il bel libro di Salvatore Milanese che, pur non essendo io un critico di professione, mi ha suscitato un tale piacere da non potermi esimere dall’esprimere nel merito le mie impressioni. Ho preferito la forma scritta, non solo per dare più peso alle mie parole, ma soprattutto per rimarcare i meriti che lo scrittore si è guadagnato per la fatica cui si è sottoposto. Da semplice lettore, interessato a tutto ciò che di nuovo possa creare emozioni e interessi letterari, ho accolto con grande entusiasmo un inedito, originale lavoro che Milanese ha posto alla nostra attenzione.

 

La prima sensazione che l’opera ci trasmette è l’armonia espositiva tra le parti e gli innumerevoli spunti di riflessione che offre al lettore. La mia analisi si svilupperà, in ogni modo, su quattro livelli principali: 1) – i motivi che l’hanno ispirata; 2) – i contenuti e i personaggi che affollano la narrazione; 3) – la struttura del testo sotto il profilo narrativo e linguistico; 4)- la natura e le implicazioni socio-culturali.

 

L’ispirazione.

 

È lo stesso autore che rivela le motivazioni che l’hanno spinto a cimentarsi con la scrittura. Alla morte improvvisa del genitore, tutta la famiglia, stretta in una rete colma di affetti, è colpita da profondo dolore per la perdita di un uomo integerrimo e padre premuroso. Per l’autore, che gli era stato legatissimo, fu un’esperienza assai dolorosa. Caduto in uno stato di disperato turbamento, misto a “rabbia e sensi di colpa”, si vide compromessi il fisico e la psiche.

Ancora affranto dal dolore, nel turbine dei suoi pensieri, incappò in un rovinoso incidente stradale che lo costrinse per oltre due anni su una sedia a rotelle. Iniziarono giorni d’indicibili sofferenze e di grande disperazione. La fede in Dio e l’affetto dei suoi cari riuscirono, però, a dargli la speranza di tornare a svolgere la sua missione di educatore. Fu così che, anche per incitamento della moglie e delle sorelle, nacque l’idea di raccogliere, in forma di appunti, la vicenda umana e professionale, e gli avvenimenti salienti della vita del papà.

 

Man mano che i ricordi diventavano più nitidi, si fece strada l’idea di raccoglierli in un unico volume, per rievocare la figura del padre e farla conoscere ai propri discendenti. La scrittura doveva servire anche come stimolo e mezzo per riempire il vuoto dei lunghi giorni d’inattività, e un modo per riempire la mente di contenuti reali e sottrarla al rischio di perdersi in pensieri vacui e alienanti.

Gli fu dunque agevole ripescare esperienze e ricordi del passato che lo fecero sentire nuovamente vivo e libero da divagazioni opprimenti. L’aver recuperato tutto un mondo di affetti, come in una lunga seduta di psicanalisi, la scrittura è servita a fargli recuperare la piena stabilità psichica, compromessa per il dolore della perdita del padre. Se queste sono le occasioni, per così dire, esterne che l’hanno spinto a cimentarsi con l’arte dello scrivere, ben più profondi sono i motivi che lo hanno ispirato.

Oltre all’amore, immenso, che nutriva per il padre, l’ha spinto un sentimento d’incontenibile ammirazione nei confronti di quel particolare genitore, da cui si sentiva letteralmente affascinato, direi quasi incantato. Rappresentava ai suoi occhi un esempio inimitabile di vita laboriosa e integra moralmente. Una persona di tale spessore, dotata d’immensa umanità, non poteva rimanere nell’oblio: bisognava mostrarla a tutti e additarla ai giovani come modello da imitare.

 

I Protagonisti.

 

Tra le numerose figure che affollano il racconto tre, a parer mio, sono i veri protagonisti: il padre Cosimo, Pina, la madre e lo stesso autore nell’età giovanile.

 

La struttura del testo.

 

Come di sopra accennato, giudicare la struttura e lo stile letterario dell’opera esorbita dalle mie competenze, ma non per questo mi sottraggo dall’esprimere nel merito le mie impressioni. L’impianto, per così dire, di tutta l’opera si configura come una vera e propria saga popolare intorno ad un unico, principale protagonista, il dott. Cosimo Milanese. Il romanzo si dipana tra l’epico e l’elegiaco e richiama i grandi capolavori a cavallo tra Ottocento e Novecento: La Certosa di Parma, Piccolo Mondo Antico, I Buddenbrook.

 

La narrazione si avvale di un linguaggio e di uno stile caratterizzati da una forma espressiva che la rendono fruibile e accessibile a tutti. Si connota, infatti, come prosa inserita a pieno titolo nella più alta letteratura contemporanea per la fluidità dell’espressione, lontana dallo stile pomposo alla Proust o alla Gabriele D’Annunzio. E’ perciò aliena da estetismi fini a se stessi; scarna, asciutta, antiretorica; distante dal linguaggio accademico. Da ciò deriva la posatezza e la sobrietà dello stile, conforme alla vita interiore dei personaggi.

 

È in sostanza una narrativa che riproduce il ritmo stesso delle vicende umane. E’ quasi un’auscultazione interiore, ansiosa di cogliere la coscienza nel suo farsi e nel suo essere rappresentazione veritiera e immediata delle persone e della realtà. Vi è la tendenza a rappresentare con immediatezza i moti dell’animo e renderne il segreto e l’incanto. L’autore non si attarda a definire o a commentare le cose, non descrive né illustra i personaggi, non dice quello che pensano, ma li ritrae attraverso le parole, il gestire, le azioni.

 

Infonde nelle creature un pensoso sentimento che reca nel suo fondo l’accettazione della vita con le sue pene e le sue miserie. Partecipa della sorte delle sue creature, ma insieme le distacca da sé, innalzandole a segni del nostro destino. Il romanzo si allarga a dismisura, e dai villici risale agli ambienti ecclesiastici, alla nobiltà decaduta, alle descrizioni di luoghi e ambienti. Un romanzo in cui i protagonisti, le situazioni e i paesaggi sono collocati in una trama storica che ha insieme valore evocativo e illuminante. Sensibilità e gusto storico reggono l’intera narrazione; sicché le persone acquistano consistenza in un clima e in uno sfondo di realtà che sottraggono lo scrittore dalle tentazioni e dai pericoli della pura fantasia.

 

Lo proteggono altresì da facili irruzioni sentimentali e lo salvaguardano da avventure decadentistiche, cioè dal quotidiano, dal volgare o dal disadorno. La sua reazione personale, si esprime in un atteggiamento divertito, priva di amarezza o di rimpianti, in cui l’autocontrollo non cancella la simpatia, ma coglie nella loro immediatezza i gesti e le intenzioni dei personaggi. Tutti vivono la loro esistenza senza che l’autore indugi a giudicarli.

 

La sua non è una prosa studiata, né un esercizio di astratta ricercatezza; è, al contrario, espressione immediata, aliena da orpelli accademici che si fa stile ed espressione artistica. Il periodare, pur governato da una profonda sapienza stilistica, acquista vero ritmo poetico; le parole e le cadenze non obbediscono a un vago proposito letterario, ma all’interiore ritmo che le detta. La spontaneità espositiva si fonde con la disciplina formale. Il risultato è un equilibrio espressivo proprio dell’opera d’arte.

 

Restano fuori il meraviglioso, il fiabesco e il sublime. Ne derivano il distacco – quasi dell’indagine sociologica – e l’obiettività con cui egli rappresenta i suoi personaggi. A tale riguardo è d’uopo rilevare il grande intuito psicologico che l’autore dimostra di possedere nel descrivere i modi e i moti dell’animo umano.

 

La natura e le implicazioni socioculturali.

 

Sia pure per brevi cenni, è d’obbligo un riferimento alla funzione non semplicemente decorativa che assumono nella struttura dell’opera la natura e i paesaggi. La nostalgia e l’amore per la terra, che completano l’ispirazione dell’autore, si fondono con la commozione con cui egli descrive i luoghi della sua infanzia. Bastano poche pennellate per cogliere la bellezza delle verdi colline primaverili, il confortevole clima della stagione autunnale che acquetano gli animi e dispensano serenità e pace nelle contrade di Calvera.

 

L’opposto del paesaggio che appare nel periodo critico leccese, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60. Appare in esso una natura battuta dal sole, imbiancata dal tufo salentino, estesa in sconfinate pianure e strade lunghe e polverose. Tali raffigurazioni non importano per la precisione descrittiva, ma sono preziose per l’atmosfera che generano e per il ritmo che conferiscono alla narrazione; essa si fregia di echi e di suggestioni musicali attraverso il chioccolare dei fringuelli, lo zirlo del tordo, il meraviglioso canto dell’allodola.

 

Non manca la descrizione del paesaggio invernale di Calvera che, nella stagione fredda, si copre di un manto nevoso e si protrae fino a primavera inoltrata. E allora “fiumi di silenzio” si spandono nei boschi e nelle rocce dei monti d’intorno; quel silenzio può fare impazzire, ma tiene uniti uomini e cose. La natura, si conforma al carattere chiuso ed enigmatico della stirpe lucana.

 

Non secondarie sono le implicazioni socioculturali che accrescono il valore complessivo dell’opera. Importanti a questo riguardo sono i sentimenti e gli atteggiamenti che l’autore assume nei confronti dei fatti descritti. Vi aleggia un commosso sentimento di amore e di umana pietà che egli custodisce nel suo cuore, colmo di tenerezza e di compassione per gl’individui più umili e indifesi, per l’umanità più derelitta, per la gente più sfortunata e afflitta dalle mille avversità. Ma accanto alla pudica commiserazione per le miserie umane, affiora una commossa e sottile vena di umorismo che rende la lettura oltremodo piacevole e meno pensosa; solleva l’animo del lettore dall’afflizione per le sciagure umane.

 

Come già accennato, molteplici e di profondo spessore culturale e sociale sono le tematiche che destano l’attenzione del lettore. Sono quelle che rivelano gli stati d’animo e le condizioni di disagio nelle quali vive gran parte delle popolazioni di Calvera e dei paesi confinanti.

 

Affiorano altresì i costumi, le consuetudini, i pregiudizi, le miserie e le virtù delle genti lucane, fino a comprendere i tratti distintivi del nostro Mezzogiorno, in un’epoca a cavallo tra l’arretratezza antica dell’Italia del primo Novecento e i bagliori di una nuova civiltà.

 

Ne vien fuori, come si suole dire, uno spaccato della società dell’epoca, con tutte le sue contraddizioni di luci e ombre: l’economia disastrata, la vecchiaia abbandonata, l’emigrazione inarrestabile, la povertà e l’indigenza di larghi strati sociali. Allo stesso tempo, però, vi affiorano non pochi valori che nella società odierna sembrano affievoliti: la solidarietà umana, l’aiuto reciproco, il rispetto per i genitori e gli anziani in genere.

 

La condizione umana e sociale che emerge dalle pieghe della narrazione, senza un minimo di esitazione, ha mosso il mio pensiero a scoprire non poche affinità tra il testo di Milanese e l’opera somma di Carlo Levi, il Cristo si è fermato a Eboli. Non è un parallelismo azzardato, ma il riscontro di una reale convergenza d’idee e di contenuti, nonché di atteggiamenti di empatia verso gli indigenti e diverse convergenze di stile e modi di espressione.

 

I principali protagonisti, entrambi medici, hanno a che fare con una realtà di miseria e di pregiudizi sociali. Coraggiosamente, entrambi, non risparmiano le energie e corrono ovunque urge la loro presenza. L’uno nel pieno esercizio delle sue funzioni, l’altro spinto dalle circostanze ambientali. Molto simili appaiono alcuni episodi riportati nei testi e le caratteristiche di alcuni personaggi. Si pensi all’uccisione corale del maiale, una specie di rito che coinvolge tutta la famiglia e l’intero vicinato.

 

Simile il destino della Santarcangelese del Levi e la vedova trentenne di Calvera, che vive in una vera stamberga con quattro figli da sfamare. Molto somiglianti le descrizioni della natura selvaggia dei calanchi di Galliano e delle rocce rugose di Calvera. Di là dai dettagli, emerge in ciascuna opera una Lucania “stregonesca e magica” fatta di credenze e pratiche primordiali.

 

Il mondo di Levi è fuori dalla storia che, attraverso la “rivoluzione contadina”, potrà un giorno riscattarsi ed entrare nel circuito storico. In Milanese non v’è traccia di considerazioni politiche, ma non per questo egli non aneli, in cuor suo, a un prodigioso riscatto sociale per merito della fede in Dio che a tutti rende giustizia.

 

Similmente, nelle due opere appaiono donne vestite di nero, bambini scalzi o con calzari slabbrati, visi consumati dal tempo. Emigranti che, al tramonto della loro esistenza, tornano a morire nella terra dei padri. Le accomuna una rappresentazione delle cose e degli uomini, lontana dal cadere nella facile commiserazione, perché persone – e animali e piante – sono descritte sempre con distaccato realismo.

 

Entrambi gli autori non ambiscono a costruire opere di puro intrattenimento o di esclusivo valore letterario, ma sono ispirati da una missione umana e sociale: narrare non solo per rappresentare e quasi ricomporre il mondo, ma per interrogarlo e documentarne le assurde sofferenze e le infinite contradizioni.

 

Perché dunque consigliare ai giovani, e non solo a loro, la lettura dell’opera di Salvatore Milanese? Non semplicemente perché è scritta in un linguaggio essenziale, conciso, puro, che riesce avidamente a conquistare il lettore in un crescendo di curiosità intellettuali e culturali, ma soprattutto perché potranno trovare in essa materia di studio e di riflessione, una traccia di vita, gremita di molteplici esempi di probità morale e civile, impersonata soprattutto dalla figura del principale protagonista della vicenda trattata.

Chissà se gli editori si sono resi conto di aver dato alle stampe un autentico Capolavoro!

Miglionico, agosto 2015.

Domenico Lascaro

Presentazione del libro “Negli occhi di un figlio” – Salvatore Milanese – sala Levi – Palazzo Lanfranchi – Matera giu 23 aprile 2015

Venerdì 24 aprile 2015 alle ore 18,30 presso Palazzo Lanfranchi si terrà la presentazione del libro “Negli occhi di un figlio” scritto dal prof. Salvatore Milanese, past presidente del Serra Club di Matera.

Interverranno nella presentazione il prof. Giorgio Bregolin e il dott. Nunzio Nicola Pietromatera. Interverrà con una testimonianza il dott. Giulio Cocca, modererà il giornalista Michele Cifarelli e concluderà i lavori l’arcivescovo dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina mons. Salvatore Ligorio.

L’autore racconta la particolare storia di un uomo, laureatosi in Medicina con sei figli, catapultato per caso in un paesino di montagna dove inizia la professione lontano da ogni struttura ospedaliera. In questo difficile contesto nasce poi la sua vocazione al diaconato permanente, tanto da diventare il primo medico diacono della Chiesa Cattolica.

Il nostro uomo, padre dell’autore del volume, nelle località dove ha esercitato la sua professione, aveva portato un modo nuovo di relazionarsi con i pazienti; “Disponibile in qualsiasi momento, non andava come gli altri colleghi che lo avevano preceduto a caccia di libretti sanitari, … Non fece mai alcuna pressione verso quei malati, che, pur non essendo suoi assistiti, continuavano a chiedere i suoi servizi… Colpiva questo nuovo modo di visitare, forse perché non erano più abituati a vedere il medico immedesimarsi nel dramma del paziente”. Per il suo modo di vivere, nella professione, nel matrimonio e nella famiglia, il diaconato lo avvicinò ulteriormente a coloro che già serviva.

Il volume è avvincente, scorrevole e si legge con piacere.

Cosimo Milanese, primo medico diacono permanente della Chiesa Cattolica

 

Amare, lavorare e pregare. Si può riassumere con queste tre azioni lo stile di vita di Cosimo Milanese (1926-2005), pugliese di nascita, ma lucano d’adozione, primo medico diacono permanente della Chiesa Cattolica. La storia della sua vita e quella della sua famiglia è al centro del libro “Negli occhi di un figlio”, scritto dal prof. Salvatore Milanese, primogenito della famiglia. Il romanzo, ed. “La Stamperia Liantonio”, Matera (aprile 2015, a carattere autobiografico, 320 pagine, è strutturato in 39 capitoli e racconta la vita di un uomo dotato di un’umanità straordinaria, “integerrimo e religiosissimo. La sua vita – scrive l’autore – ha scavato un solco profondo in tutti noi e in quanti lo conobbero. È stato testimone di Cristo, nonostante gli inevitabili contrasti che l’uomo verace e ardente di carità incontrava nel suo cammino. Col suo fervente apostolato ha aperto le nostre e tante anime a Dio. Il libro è ambientato in un piccolo paese della Basilicata, Calvera, ai margini del parco nazionale del Pollino”. Nei primi capitoli del romanzo, è nonna Nina a svelare i segreti e gli aneddoti dell’aristocratica famiglia Milanese che, negli anni del dopo guerra, è costretta a confrontarsi con alcune vicissitudine, a causa di alcune difficoltà di natura economica. Nonna Nina, rimasta vedova molto giovane, è costretta ad accudire i suoi tre figli, Giovanni, Ferdinando e Cosimo. Quest’ultimo, che è il protagonista principale del romanzo, non esita ad abbandonare il seminario e la futura vita sacerdotale, per il grande amore della sua vita, Pina Cavallo, la sua devota moglie che gli donerà ben sette figli, due maschi e cinque donne. La signora Pina, oggi novantenne, che vive a Matera, unitamente ai suoi figli, è l’altra protagonista del libro. La forza del romanzo sta nell’indicare al lettore il senso della vita: va ricercato nel saper amare il prossimo. Un insegnamento cristiano che traspare dai comportamenti quotidiani del protagonista che, sia nella sua professione di medico che in quella di diacono, dà tutto sé stesso per aiutare il prossimo senza chiedere niente in cambio.

Tra le pagine del romanzo si snoda un autentico percorso emozionale che accompagna il lettore a scoprire la storia di un uomo che fa della solidarietà e del volontariato i valori cardine della sua vita. Ma il romanzo non è solo l’omaggio che il figlio Salvatore rivolge alla vita virtuosa del padre Cosimo. In pratica, nel libro non ci sono solo tanti momenti di tenerezza dedicati all’uomo felice di aiutare l’altro, soprattutto “l’altro bisognoso”, ma c’è anche dell’altro: c’è la descrizione di una società sofferente che usciva dalle macerie causate dalla Seconda guerra mondiale, ed era costretta a vivere in condizioni di povertà assoluta; c’è anche la testimonianza della cultura del lavoro e l’impegno per una vita responsabile e di alto profilo civico. Tutto il romanzo è attraversato da una luce permanente. Leggerlo è come fare una cura ricostituente a base di vitamine: sono quelle che testimoniano il valore dell’amore, della solidarietà e della misericordia. È un libro che ti fa riconciliare con la vita, te ne fa capire la bellezza. Dopo averlo letto si ha la sensazione di aver ricevuto un grande messaggio d’amore. Giacomo Amati

 

Created by Antonio Labriola – 10 luglio 1999 – Via Francesco Conte, 9 – 75100 Matera – Tel. 0835 310375.

POTREBBE INTERESSARTI