LAROTONDA ANGELO

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LAROTONDA ANGELO

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Potenza 1937

Docente di antropologia culturale all’Università degli Studi della Basilicata, ha insegnato anche a Messina (Antropologia Economica) e a Roma (Storia del Cinema). Nella RAI è stato documentarista e sceneggiatore realizzando tra l’altro “Vita, miracoli e morte del cafone lucano (13 puntate); Premio Presidenza del Consiglio dei Ministri per il volume Cultura e religione nel cinema, Torino, E.R.I. 1975; Medaglia di benemerito della cultura e dell’arte (1995) conferita dal Presidente della Repubblica italiana.

Docente di Antropologia Culturale all’Università degli Studi della Basilicata, ha insegnato anche a Messina (Antropologia Economica) e a Roma (Storia del Cinema).

Ha lavorato per il cinema e la RAI come documentarista e sceneggiatore, realizzando, tra l’altro, “Vita, miracoli e morte del cafone lucano (13 puntate)”.

È stato membro di varie commissioni ministeriali presso l’allora Ministero dello Spettacolo.

A Potenza ha fondato la società concertistica Ateneo Musica Basilicata e a Satriano di Lucania ha curato l’allestimento del Museo virtuale del Pietrafesa, pittore lucano del Seicento.

Il Presidente della Repubblica gli ha conferito la medaglia di benemerito della cultura e dell’arte (1995).

Premio Presidenza del Consiglio dei Ministri per il volume Cultura e religione nel cinema, Torino, E.R.I. 1975.

Ha pubblicato, tra l’altro: Riprendiamoci la storia – Dizionario dei Lucani, Mondadori Electa, Milano 2012; Matera – Segni e luoghi, Motta Editore, Milano 2002; Potenza, una Provincia di cento Comuni, Motta Editore, Milano 2002; Verso il giorno (meditazioni), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1981. Nell’ambito del LFF ha tenuto un Talk sulla Magia in Basilicata, presentando il suo libro “La maciara indaffarata”.

Angelo Lucano Larotonda

Nato a Potenza nel 1937 ha insegnato antropologia economica a Messina, antropologia culturale presso l’università della Basilicata e storia del cinema a Roma, lavorando come sceneggiatore per la Rai e per il cinema e realizzando la fiction in 13 puntate Vita, miracoli e morte del cafone lucano. Ha scritto Verso il giorno, meditazioni, (Città del Vaticano, 1981); Matera. Segni e luoghi (Milano, Motta,2002); Potenza, una città di cento comuni (Milano, Motta, 2002) e il saggio bibliografico. Riprendiamoci la storia. Dizionario dei lucani, (Milano, Electa, 2012).

Ma le sue attenzioni si sono rivolte al mondo magico lucano e ha pubblicato da ultimo vari libri sull’argomento.

Ci siamo accorti solo dopo i tanti volumi di Ernesto De Martino dell’esistenza di una religiosità pagana praticata dalla società meridionale e parallela a quella cattolica. Ma non si trattava esclusivamente di religiosità, bensì di una medicina naturale che aveva nel malocchio, nella iettatura e nella fascinazione i mezzi più efficaci per procurare guai alla gente e diffondere una spiritualità malefica, un animismo che agiva contro l’uomo, tutto diffuso nell’aria, nella vegetazione, nella società. Di benefica c’era solo la religione, di amici dell’uomo si contavano solo nel corredo agiografico e i soli medici erano i santi, la Madonna, Cristo, l’acqua benedetta, la preghiera.

Di tutto questo mondo magico leggo un volumetto gradevole e ben documentato di Angelo Lucano Larotonda, La maciara indaffarata. Lessico della magia lucana, edito da Osanna di Venosa. Parte di questo libro era già apparso nella rivista “Appennino”, ma qui l’autore, già docente di Antropologia Culturale presso l’università della Basilicata e autore di numerosi saggi sul cinema, sulla cultura etnografica e da ultimo su L’innamoramento in Basilicata, approfitta per chiarire i suoi rapporti con gli antropologi di casa nostra che lo hanno preceduto, De Martino, Pasquarelli, Bronzini, e con il documentarista Luigi Di Gianni e con il giornalista Rocco Brancati che hanno molto operato su questi temi.

Aggiriamoci a caso nel bosco di lemmi che ci propone Larotonda. Quali erano i santi guaritori che aiutavano i malati di un tempo? Ovviamente san Cosma e Damiano guidano la schiera dei santi, sono curatori generici in grado di intervenire su ogni tipo di malanno. Ma per chi abbia un mal di gola o un gozzo, il santo più indicato è san Biagio. Il fuoco d’ sant’Antonio ha bisogno dell’intervento del fraticello di Padova, mentre per proteggere una partoriente si deve ricorrere a sant’Anna. Contro pazzia ed epilessia bisogna rivolgersi a san Donato, mentre per liberare dal pelo alla mammella c’è una santa di fantastica invenzione popolare come santa Mammaia e così via.

Ma la regina del libro e dei malefici del passato è la masciara o il masciaro. Come Mamma Santa di Ortanova o Zi’ Giuseppe di Castelmezzano. Depositari di un potere stregonesco grazie al quale potevano slegare o legare le forze invisibili che abitavano la luce e le tenebre, il vento e le nubi e “pilotavano le terribili armi della malattia e della morte”. Temute e rispettate, queste creature agivano su commissione, mirate a neutralizzare minacce contro l’integrità psico-fisica di un individuo o a procurargli danni attraverso una magaria. In tempi lontani queste creature erano assimilate a streghe e stregoni, soggetti alle punizioni dei tribunali dell’inquisizione e aiutati da animali come capre e caproni, porci e serpenti. Famosi i sabba delle streghe di Benevento e di Valpurga.

Razionalizzare tutta quanta la disciplina in una sorta di enciclopedia o dizionario del magico non è semplice e non credo lo sarà mai, perché tutti i lemmi rinviano a un intero universo, a un tempo e a un mondo spaventosamente concatenati all’interno dei link che si aprono da ogni singola voce.

Prendiamo per esempio la scopa. Questo oggetto è un mezzo fondamentale per combattere l’intrusione della masciara nelle case. Va perciò tenuta dietro la porta su un pugnetto di immondizia, perché la masciara potrebbe introdursi in casa attraverso il buco della serratura o attraverso gli interstizi della porta. Una masciara che entra in casa può produrre molti guasti, avviluppare il corpo di un neonato o i genitali degli sposi e impedire la procreazione. Se però i suoi pensieri si aggrovigliano nei fili di meliga o di saggina, ecco che un riparo lo si trova.  Ma il maleficio non è affidato unicamente al potere della masciara, bensì alla forza del malocchio, ovvero a una forza molto democratica e diffusa qual è l’invidia. L’invidia abita tutto il paese, è espressa dagli occhi malefici di tutti coloro che guardano. Si può invidiare per bene e per male ed esercitare dunque una forza malefica di legamento. Si pensi a un corteo nuziale, con una coppia troppo fortunata. Il malocchio si esprime “contro le persone, contro gli animali, contro gli averi”. Bisognava perciò munire di amuleti magici o benedetti questi beni, proteggerli dall’occhiatura. E quando venivano colpiti era necessario ricorrere alla masciara o a persone che si erano munite di capacità di affascino e di sfascino. Si recitavano formule magiche che citavano santi ed elementi benedetti: l’acqua santa, la stola dei preti, croci, l’abitina contenente tre peli di tasso, tre chicchi di grano, tre sassolini di fiume, un’immaginetta.

Ma in casa molti oggetti erano causa di malefici. Lo specchio era ad esempio sovraffollato di spiriti e i bambini non dovevano specchiarsi. Guai a farlo cadere e frantumarsi perché era foriero di guai. E guai erano legati alla perdita di olio o di sale. Guai e invidia erano appostati sulla soglia di casa e si rendeva necessario per una giovane coppia di sposi superarla con un salto.

Un mondo di credenze svanito con un colpo di spugna dopo secoli di sopravvivenza, grazie al potere delle scienze, della medicina e con l’avvento di un’età di benessere e la lotta serrata all’analfabetismo portata da quel solo strumento di difesa che abbiamo nella scuola e nella lettura.

Raffaele Nigro

Angelo Lucano Larotonda – La Memoria E Lo Scempio

LA MEMORIA E LO SCEMPIO

Angelo Lucano Larotonda

LO SAPPIAMO: non si ha identità se non si ha memoria. Ciò vale sia per una comunità che per un individuo. Memoria di cosa? Delle costruzioni simboliche che una comunità è stata capace, ed è capace costantemente, di fare. Ne consegue che la memoria non ci è data “naturalmente” ma è “costruita” passo dopo passo per mezzo dei simboli collegati tra loro e che hanno a vedere con i pensieri elaborati, le creazioni artistiche espresse, le azioni compiute proprio in funzione dell’identità.

Fermiamoci un momento a considerare la “memoria collettiva”. Questo termine significa che in ogni comunità esiste il ricordo di un passato condiviso. Ma tale ricordo esiste soltanto se vi sono determinate condizioni. Ne cito una. La memoria collettiva esiste se la comunità elabora i suoi prodotti culturali in relazione allo spazio e al tempo. Cioè: una comunità sviluppa un “fondo di ricordi” distribuiti nel tempo e nel suo territorio e che tale fondo è condiviso da tutti. Esempio: i moti rivoluzionari del 1860 partiti da Corleto; i Sassi di Matera; il Beato Bonaventura, uomo inviato da Dio in Basilicata, ecc.  Sono tutte “tracce di memoria” che “offrono un’immagine di permanenza e stabilità”, indipendentemente dal fatto che siano semplici “cose” della storia lucana.

Proprio Intorno a tali riferimenti spazio-temporali si rinsalda la memoria comune. Sul piano temporale, quando la memoria rievoca gli eventi, li colloca in un punto dello spazio. Sono i cosiddetti “luoghi della memoria”. Su essi la comunità proietta, e trae, la propria storia e le vicissitudini che le appartengono. I luoghi della memoria sono dunque “siti” in cui si condensano immagini di un passato carico di significati che evocano il senso di appartenenza degli individui ad un determinati gruppo. . (Esempio: un monumento in una piazza, un museo, il luogo dove è avvenuto un miracolo, ecc.). Anche specifici luoghi sacri sono è luoghi della memoria in quanto rispondono a precise aspettative dei pellegrini e, nel contempo, confermano ad essi la propria identità di appartenenza alla religione professata (Lourdes per i cattolici, la Mecca per i mussulmani, ecc.).

Ho fatto questa lunga premessa perché essa si ricollega, con tutta la forza dei suoi significasti, al problema sorto intorno alla tomba di Rocco Scotellaro, sito della memoria, in questi giorni contaminata, oltraggiata a causa di una delibera della precedente giunta del Comune di Tricarico. La quale ha dato il permesso ad un privato di costruire una cappella funeraria a ridosso immediato della tomba del poeta. Il caso è stato anche segnalato al Presidente della Repubblica Napolitano con un appello firmato da molti intellettuali di varie regioni (pochissimi quelli lucani!).

Due osservazioni e un punto fermo. La prima osservazione è che tutti i lucani interpellati – rete, in conformità al pensiero del prof. Larotonda: «tutti gli intellettuali della Basilicata» interpellati, nessuno escluso – hanno firmato. L’iniziativa per rivolgere un appello al presidente della Repubblica e ai rappresentanti delle istituzioni politiche e culturali della Basilicata fu assunta e portata avanti d’impeto, non appena venuto a conoscenza dello scempio compiuto nel cimitero di Tricarico, dirigendo le richieste di adesione all’appello fuori della Basilicata non per il significato di mobilitazione che si intendeva dare all’appello.

La seconda osservazione concerne uno scarto negativo nella ricostruzione della memoria condotta dal prof. Larotonda con puntualità ed efficacia, sia pure con uno stile polemico ed enfatico, dovuta a una incontrollata impennata della vis polemica. Non discuto il giudizio (o pregiudizio) antidemocristiano, che non condivido, ma discuto l’incidenza negativa che esso ha esercitato su una fedele ricostruzione della memoria. Rocco Scotellaro criticava la «lenta riforma», in polemica con la burocrazia degli enti di riforma, ma la riforma fondiaria – agraria in alcune realtà come quella del Mezzano ferrarese – è stata altra cosa: una grande conquista di popolo, la più grande innovazione sociale e la più importante riforma del dopoguerra. Non si dimentichi che Rocco Scotellaro è stato uno dei «ragazzi di Portici» alla Scuola di Manlio Rossi Doria.

Non voglio scendere in polemica spicciola con “quelli-là” del Comune. Mi si lasci però ricordare loro che la memoria collettiva della comunità di Tricarico e dell’intera Basilicata non è costituita, per fortuna, dalle incompetenze o dalle loro malefatte o dalle insensibilità dei suoi amministratori ma proprio dall’opera poetica di Scotellaro. E dagli altri uomini che da quel paese hanno irradiato pensieri tesi ad un rinnovamento del mondo contadino lucano. E per questo contrastati. Ricordo in proposito Rocco Mazzarone.

O a seminare semi di sapienza dottrinale per lo svecchiamento della chiesa locale. E anche per questo contrastato. Mi riferisco a don Angelo Mazzarone. Sono uomini-simbolo che hanno dato lustro a questa regione, nonostante le mille mortificanti emarginazioni date ai loro pensieri da parte di piccoli-esseri interessati alla “bottega” e tesi a stravolgere, tradire, deformare la nostra memoria collettiva.

Ma “quelli-là” sanno che Scotellaro, con le sue opere, ha rotto il silenzio omertoso sulla condizione dei contadini del sud? Sanno che egli l’ha resa pubblica indicando alla società italiana che essi esistevano nello spazio e nel tempo della Basilicata e che a questa hanno fornito simboli e   comportamenti? Sanno che la cappa democristiana, per anni inespugnabile muro di sordità al mondo contadino, ha illuso tale mondo con una riforma agraria che doveva “rifondare” le rappresentazioni del mondo contadino lucano ed invece è finita in un fallimento clamoroso? Peraltro, previsto e denunciato da Scotellaro. Sanno che “questo” poeta è un simbolo importante non soltanto della cultura ma anche della società lucana? O grava ancora sulla sua memoria lo stesso ostracismo che la società perbenista, e spesso anche ignorante, diede a lui in vita perché “comunista”, e cioè diverso dal pecorume strumentale vivo ancora oggi?

Il silenzio attuale che aleggia intorno alla tomba di Scotellaro è un semplice vuoto di memoria storica, politica e amministrativa. Il nuovo Sindaco risarcisca i proprietari e consenta loro di costruire altrove la loro tomba. O forse vuole condannare un simbolo all’indifferenza e quindi al silenzio? Nessuno dimentichi che i versi di Scotellaro hanno conferito espressione ai vissuti dell’uomo lucano. Contadino e no, povero e no, ma pur sempre uomo.

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GIOVEDÌ 12 GENNAIO 2023

Ho ritrovato quest’antica foto: è del 1987, anno in cui, da poco, ero approdato all’Università della Basilicata proveniente dall’Università di Messina. Avevo vinto il concorso nazionale e fui davvero felice di ritornare nella mia terra, lasciata nel 1957 per Roma.

Alla mia destra è l’allora Rettore Magnifico, prof. Cosimo Damiano Fonseca, oggi novantunenne, ancora caro nel mio ricordo.

PUBBLICATO DA ANGELO LUCANO LAROTONDA

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