SANZA ANGELO

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SANZA ANGELO

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Rionero in Vulture, 22 ottobre 1897 – Roma 20 aprile 1959

Politico appartenente a una grande famiglia cattolica, cresciuto a pochi passi dall’abitazione di Emilio Colombo, frequentando la parrocchia della Santissima Trinità e poi rimasto in ascolto del noto allievo di don Sturzo, mons. Vincenzo D’Elia. Gli studi americani, la prima candidatura, quasi imposta, e l’apertura alla vita politica romana con il suo ampio sistema di relazione, Deputato per dieci legislature, con diversi incarichi parlamentari e Sottosegretario di Stato in 9 governi diversi.

Nasce a Potenza, in una famiglia borghese e cattolica, il 22 settembre 1941, primogenito di un capo del personale e di una donna di origini pugliesi, con due sorelle minori. Da giovane frequenta la parrocchia della Santissima Trinità, e successivamente consegue la laurea in economia e commercio all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, con una tesi sui sistemi idrici ed irrigui della California meridionale.

In vista delle elezioni amministrative del 1964, si candida al consiglio comunale della sua città natale, dove risulta il primo degli eletti per la Democrazia Cristiana (DC), in cui si ritroverà a svolgere anche il ruolo di assessore allo sport e alla cultura nella giunta comunale a Potenza.

Nella DC è stato attivo nel suo Movimento Giovanile fino ai 25 anni (facendo parte dei suoi vertici), segretario provinciale del partito dal 1968, segretario regionale della DC in Basilicata, nonché tra i membri della corrente “Base” di Ciriaco De Mita (dove divenne uno dei suoi più importanti collaboratori), contro quella dorotea di Emilio Colombo.

Alle elezioni regionali in Basilicata del 1970 venne eletto nel consiglio regionale della Basilicata, svolgendo il ruolo di capogruppo DC nella giunta di Vincenzo Verrastro.

Alle elezioni politiche del 1972 venne eletto alla Camera dei deputati per la prima volta nelle liste della DC, e da allora sempre riconfermato fino al 2008.

È stato nominato sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri nei governi Andreotti IV e V, al Ministero dell’interno nei governi Cossiga II, Forlani, Spadolini I e II e Fanfani V, agli Interventi nel Mezzogiorno nel governo Goria e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo De Mita con delega ai servizi segreti.

Nel 1994, con lo scioglimento della DC, aderisce alla rinascita del Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli, e l’anno successivo segue la scelta di Rocco Buttiglione, favorevole ad un’alleanza con Forza Italia di Silvio Berlusconi, aderendo ai Cristiani Democratici Uniti (CDU).

Alle elezioni politiche del 1996 viene ricandidato alla Camera dei deputati nel collegio elettorale di Roma-Pietralata, sostenuto dal Polo per le Libertà in quota CDU, dove viene rieletto deputato con il 47,47% dei voti. Nella XIII legislatura della Repubblica riveste il ruolo di vice-capogruppo del gruppo parlamentare “Centro Cristiano Democratico“, che riuniva il CDU con il Centro Cristiano Democratico di Pier Ferdinando Casini.

Nel 1998 raccoglie l’appello del Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga di costituire una nuova formazione politica di centro, che a giugno aderisce all’Unione Democratica per la Repubblica (UDR) di Cossiga, unendo i parlamentari del CDU di Buttiglione, i Cristiano Democratici per la Repubblica di Clemente Mastella, Socialdemocrazia Liberale Europea di Enrico Ferri e diversi transfughi di Forza Italia e Alleanza Nazionale come Carlo Scognamiglio.

Successivamente all’UDR di Cossiga, aderisce a Forza Italia (FI), con cui confermò il suo seggio alla Camera al termine delle elezioni politiche del 2001, in cui è stato eletto con il sistema proporzionale in Puglia.

Nella XIV legislatura della Repubblica ha fatto parte della 9ª Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera, di cui è stato dal 2002 capogruppo FI, e dal 2005 ne è divenuto Presidente.

Alle politiche del 2006 è stato eletto nuovamente deputato in Puglia nelle liste di Forza Italia. È attualmente coordinatore nazionale della Fondazione Liberal. Nel 2008 abbandona Forza Italia per passare all’Unione di Centro di Pier Ferdinando Casini, di cui ne è stato segretario regionale in Puglia fino a luglio 2013.  A luglio 2013 lascia l’UDC e aderisce al Centro Democratico di Bruno Tabacci, di cui diventa vicepresidente l’11 ottobre.

Nel 2018 è tra i membri del consiglio direttivo di +Europa, nuovo fronte europeista guidato da Emma Bonino e di cui fa parte anche l’amico Bruno Tabacci.

In seguito alla nascita del Governo Conte II, dove +Europa su impulso della Bonino decide di posizionarsi alla sua opposizione, Centro Democratico lascia il progetto +Europa e Sanza si dimette dal consiglio direttivo “in disaccordo con la scelta di Emma Bonino di collocare Più Europa all’opposizione“.

GENNAIO 2022

Intervista all’On. Angelo Sanza By  Roberto Serrentino

Angelo Sanza – Vicepresidente di Centro Democratico

Intervista all’On. Angelo Sanza, Vicepresidente di Centro Democratico

 

On. Angelo Sanza, lei ha un’esperienza politica lunga e importante, che le consente una visione puntuale sull’evoluzione della nostra politica e dei partiti. Eletto alla Camera dei deputati continuativamente per dieci legislature dal 1972, ha ricoperto incarichi di governo e dal 2013 è il Vicepresidente di Centro Democratico. Dove si posiziona il suo partito nell’attuale geografia politica nazionale?

Si configura come un partito moderato progressista, un centro popolare che guarda a sinistra, seguendo la tradizione degasperiana, rivolgendosi al ceto medio italiano, quasi lasciato ai margini nella prospettiva politica e che noi intendiamo far tornare protagonista, interpretandone le istanze. Il cuore del nostro programma guarda alle esigenze dei ceti produttivi che costituiscono l’ossatura della Nazione, al popolo delle partite IVA, alla borghesia moderata, che si è vista erodere visibilità e considerazione, al vasto ceto popolare da valorizzare per i talenti che nascono al suo interno in una sana logica di ascensore sociale, che vede premiati i meritevoli e non i raccomandati.

È ancora attuale il progetto moderato progressista portato avanti da un partito, comunque piccolo come il suo, considerato che gli spazi della politica oggi vengono occupati da partiti sempre più grandi, aggreganti e inclusivi?

La distorsione dipende dal sistema elettorale. I padri costituenti, consapevoli del pluralismo culturale e sociale del nostro Paese, avevano costruito una Carta Costituzionale in cui le singole culture, ricchezza dell’Italia, potessero essere valorizzate. La DC, ispirata dallo zoccolo duro del cattolicesimo popolare sturziano, riuscì a legare una destra liberal democratica con una sinistra popolare progressista (da Andreotti a Donat Cattin) e ad equilibrare il Paese, guidandone la crescita e allargandone l’orizzonte. Pertanto, un grande centro si regge soltanto con la prospettiva di un sistema elettorale proporzionale. Al contrario, una legge maggioritaria spacca come una mela quest’area e la rende succube dell’estremismo di destra, oggi sovranista, o di una sinistra populista e grillina, ovvero di coloro che mirano a duellare per veti incrociati in un’eterna gara che dimentica Paese e cittadini.

 

Perché Centro Democratico ha deciso di appoggiare il governo Draghi? È stata una scelta autonoma, oppure indotta dal concorso a sostegno di tutte le forze di centrosinistra?

Centro Democratico ha sempre sostenuto la formazione di maggioranze che facessero riferimento ai grandi ceppi culturali europei, dal popolarismo di marca democristiana al socialismo democratico. Quindi, come ricorderà, non abbiamo appoggiato i gialloverdi, ma abbiamo favorito la nascita del Conte bis e, a maggior ragione, la formazione del governo Draghi.

Per le contingenze economico-pandemiche abbiamo considerato che la risposta data da Draghi alle emergenze, attraverso il programma che ha elaborato e in cui ci riconoscevamo, fosse la strada maestra nell’interesse degli italiani.

 

Il Conte bis è stato sostenuto dal Centro Democratico, pur senza avere propri rappresentanti come ministri o sottosegretari. Oggi, invece, con l’appoggio al governo Draghi siete entrati nella squadra.

La nostra scelta è sempre stata forgiata da ragioni politico-programmatiche, non certo di mera partecipazione al potere. Viste le considerazioni che ho appena fatto, avremmo egualmente sostenuto il Governo Draghi anche in assenza di una nostra presenza nella compagine governativa. L’importante era, per noi, che a Palazzo Chigi ci fosse un Presidente del Consiglio di prestigio, credibile, in grado di affrontare con competenza e concretezza la temperie della pandemia e della crisi economica ad essa legata.

 

Essendo contrari al sovranismo, come convivete nell’attuale governo con la Lega, ammesso che la Lega possa ancora considerarsi pienamente sovranista, dopo le ultime evoluzioni ispirate dall’On. Giorgetti?

Essere al governo è una sconfitta della Lega, una camicia di Nesso in cui si trova imprigionata nelle sue calate d’ingegno propagandistiche, tutto fumo e niente arrosto. In virtù di questa situazione, ha dovuto rivedere politicamente e culturalmente la propria linea, anche se con fughe in avanti, per meri scopi elettorali, un abbaiare alla luna, che mitiga dichiarando come un mantra che si riconosce nel programma di Draghi. Ciò che conta per noi non sono le situazioni di bassa cucina, bensì l’Europa. Perché l’Europa intera partecipa a uno sforzo corale per la salute dei propri cittadini, nonché per la difesa della propria realtà economica, contro gli attacchi che le provengono da più parti: Cina, Russia e, per alcuni aspetti, con l’eclissi dell’amministrazione Trump, anche dagli Usa.

 

Ma questa evoluzione in senso europeista ha consentito alla Lega di accrescere i consensi, almeno stando agli ultimi sondaggi. Come lo spiega?

Non è un successo. La Lega è un partito che sta vivendo un forte dibattito interno e ciò è provato dalle incomprensibili piroette quotidiane del suo leader pro tempore. Aspetterei gli effetti del governo Draghi sulla tenuta della leadership all’interno della Lega, prima di poter dare una valutazione di lungo periodo.

 

Il Presidente di Centro Democratico On. Bruno Tabacci oggi è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega per il coordinamento della politica economica. Che significato può attribuire a questo incarico di assoluto prestigio?

Si tratta del riconoscimento alla coerenza del nostro piccolo movimento politico, nonché dell’apprezzamento verso di lui personalmente, quale politico di lungo corso, con grandi esperienze in campo economico, espressogli dal Presidente Draghi. Il Recovery plan, alla cui attuazione in Italia è chiamato a vigilare la struttura da lui presieduta – non a caso incastonata nella Presidenza del Consiglio – equivale, per capacità di salvataggio, al piano Marshall del dopoguerra per l’Europa, oggi distrutta dal covid con moltissime vittime e macerie economiche.

Serve un’attività di gestione e, riconoscendo le diverse funzioni dei dicasteri, Palazzo Chigi necessita di poter contare su un coordinamento. Il Dipartimento di politica economica diventa così funzionale per avere un’unica interlocuzione verso l’Europa.

 

Nella sua lunga carriera politica, lei è stato anche Sottosegretario agli Esteri nel 1978. Cosa pensa dell’atlantismo fortemente sostenuto da Draghi?

L’atlantismo è la forza portante della democrazia occidentale e vive se c’è parità fra le due sponde di USA ed Europa. Con Trump l’atlantismo era venuto a scemare per la scelta dell’ex presidente repubblicano di prediligere l’“America First”. Ora Joe Biden, democratico e cattolico, sulla scia della cultura di Obama di cui è stato vicepresidente, rassicura gli alleati per quel ruolo di arbitro che gli Stati Uniti hanno sempre interpretato negli equilibri mondiali.

 

Il tema sanità con la crisi pandemica ha riportato ad attualità il dibattito sul federalismo e la divisione dei poteri fra Stato e Regioni.

È stato un errore delegare completamente la sanità alle regioni. Occorreva distinguere la sanità territoriale, rappresentata dall’ossatura dei medici di base, una volta denominati medici di famiglia, da affidarsi al governo regionale, dal grande mondo della ricerca e dell’assistenza attraverso i plessi ospedalieri, dove la selezione della classe medica viene fatta secondo criteri nazionali e non come appannaggio della clientela regionale. Va, pertanto, rivista con urgenza la legislazione sulla sanità. Prendo spunto dalle decisioni di Joe Biden di fronte ad una pandemia, che ha invaso la Nazione, mostrandosi pervasiva e quasi del tutto incontrastata. La pandemia è da assimilare a una guerra mondiale e serve unità di comando. Il Presidente Biden, per quanto gli Stati Uniti siano uno Stato federale, per contrastare l’emergenza ha avuto il polso di prendere decisioni centralizzate con accelerazioni sui vaccini e le cure, nonché sui ristori economici alle fasce deboli della popolazione con immediati benefici. Una ricetta che il governo Draghi si è avviato a seguire e di cui presto beneficeremo.

https://www.giannipittella.com/basilicata-la-storia-la-politica-il-popolo/basilicata-la-storia-la-politica-il-suo-popolo-intervista-ad-angelo-sanza/
‘Basilicata. La storia, la politica, il suo popolo’. Intervista ad Angelo Sanza

8 gen 2021

 

Poche parole per introdurre la mia rubrica “Basilicata. La storia, la politica, il suo popolo”.

Ritengo che la conoscenza sia una grande risorsa, come anche un’ottima opportunità di crescita, e sono convinta che entrare nelle radici profonde di un territorio, specialmente in quelle del proprio territorio, sia un’esperienza che richiede tempo, sacrificio e dedizione per crescere con consapevolezza.

È un po’ come ricostruire l’albero genealogico della propria famiglia perché, in fondo, la Basilicata è una grande famiglia.

La mia rubrica rappresenta il mio impegno per i lettori lucani e non, per questo mi auguro che siate invogliati a leggere le storie che vi propongo con la stessa forza che mi caratterizza e mi induce a divulgare quanto più possibile la bellezza delle radici a cui appartengo. Raccoglierò le testimonianze di quanti hanno concorso a realizzare il quadro politico e la storia della Basilicata, utilizzando al meglio le potenzialità del territorio.

Buona lettura!

Rosita Stella Brienza

A Lezione di storia e politica lucana con Angelo Sanza. Un’esperienza che lascia riflettere. Sicuramente l’uomo è fermo, deciso e soprattutto attento ai segnali dei tempi che, in questa intervista se ne colgono eccome, raccontandone ben sessanta di anni. Niente è casuale nella vita di Angelo Sanza: essere il primogenito, appartenere a una grande famiglia cattolica, crescere a pochi passi dall’abitazione di Emilio Colombo, frequentare la parrocchia della Santissima Trinità e poi rimanere in ascolto del noto allievo di don Sturzo, mons. Vincenzo D’Elia. Gli studi americani, la prima candidatura, quasi imposta, e l’apertura alla vita politica romana con il suo ampio sistema di relazione e i tanti benefici portati a casa propria, appunto in Basilicata.

La sua esperienza a servizio della Basilicata è maturata attraverso un percorso formativo che le ha consentito di entrare gradualmente sulla scena politica lucana. Quali sono stati i momenti salienti della sua formazione politica e come ha contribuito con il suo impegno allo sviluppo del territorio lucano? 

Nasco a Potenza in via Roma il 22 settembre del 1941 e cresco nella cultura propria di quella stagione, in cui era dominante la visione cattolica con il riferimento alla chiesa della SS Trinità e a un allievo di don Luigi Sturzo, Mons. D’Elia. Gli studi alle scuole elementari e il catechismo andavano di pari passo, con una formazione culturale assolutamente normale, senza meriti e nemmeno demeriti. Figlio di una famiglia borghese. Mio padre era il capo del personale di una mutua malattie, mia madre era una Lamorgese e veniva dalla vicina Puglia. Primogenito con due sorelle minori. La Trinità tra messe domenicali e catechismo è stata la mia seconda area formativa. E quindi dopo la famiglia, venivano la scuola e la parrocchia. Una formazione cattolica di base. Mentre ero al termine delle scuole superiori, con un corso di studi assolutamente normale, quindi non da sgobbone, fu grazie all’insistenza della mia docente di inglese, Naglia Ricciuti, che partecipai a un bando di concorso per frequentare l’ultimo anno di scuole superiori negli Stati Uniti… e così che arriva la mia avventura americana, tra gli anni 1959-1960. Con totale distacco verso interessi specifici nella politica, ero interessato soltanto ad essere un buono studente. Un break, quello americano, fondamentale che ha segnato profondamente la mia vita. Sbattuto a Lemon Grove, villaggio vicino San Diego, nella California meridionale, a due passi dal Messico, nel più lontano dei centri degli USA, frequentai l’ultimo anno delle scuole superiori.

 

E cosa accadde nella sua vita durante l’esperienza americana?  

La mia vita cambiò radicalmente e mi ritrovai in una nuova dimensione, che mai avrei immaginato di vivere. Il mio anno alla “Mount Miguel High School” fu straordinario sotto tantissimi punti di vista: dalla formazione culturale, di elevato spessore, ai professori premurosi nei confronti degli studenti. Fui colpito molto dalla grande umanità di famiglie facoltose. Non dimentichiamo che in quegli anni eravamo in piena guerra fredda e che l’anno si aprì con la fuga da Cuba del dittatore Fulgencio Battista e con l’ascesa al poter di Fidel Castro, che a febbraio del 1959 giurò come Primo ministro. Quanto accadde nell’isola caraibica nei mesi successivi contribuì ad accelerare il cambiamento della relazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. A settembre il Presidente degli Stati Uniti Eisenhower incontrò, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, il Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Krusciov. Per me significò sentire ciò che stava accadendo direttamente sulla mia pelle. Ma il tempo passa in fretta e, tornato in Italia, mi iscrissi alla facoltà di economia e commercio alla Sapienza di Roma. A questo punto, ci tengo a raccontare un particolare: rientrato dagli Stati Uniti e, dopo aver già intrapreso gli studi universitari, ritornando a frequentare la Santissima Trinità incontrai Emilio Colombo, amico di mio padre. In quel periodo, era il ‘64, stavano per essere convocate le elezioni amministrative per il rinnovo del Consiglio comunale di Potenza. Colombo era venuto a conoscenza della mia storia americana e, volendo rinnovare la lista per il Comune, insistette con mio padre, prima a convincere mia madre contraria alla mia candidatura, e poi a convincere me perché mi candidassi al Comune di Potenza. Quei giorni in famiglia c’era un po’ di tensione perchè mia madre riteneva che gli studi fossero prioritari rispetto al resto e che avrei trascurato lo step finale: scrivere la tesi di laurea. Personalmente ero completamente disinteressato alla politica, per me erano importanti la mia formazione cristiana e quella universitaria. Ma, Colombo non si arrendeva. Il suo intento era candidare un giovane con una buona esperienza formativa e grazie alla sua grande capacità di mediazione riuscì a convincere mio padre, poi mia madre e poi me. Fu così che, seppur con motivazioni minimali, accettai di firmare la mia candidatura e fui il primo degli eletti al Comune di Potenza.

 

E quale fu il suo ruolo nel Consiglio comunale di Potenza dopo aver avuto un così vasto consenso elettorale? 

Sebbene una campagna elettorale con pochi santini, e dunque un impegno molto relativo, sulla mia elezione incise un fronte di amicizie molto vasto che abbracciava il mondo cattolico, quello dello sport, gli amici di scuola a soprattutto una grande famiglia potentina: i Lamorgese. A questo punto, festeggiato per il risultato elettorale ottenuto, ecco di nuovo l’intervento materno che si opponeva all’impegno politico. “Farà l’assessore alle cose belle”, disse Emilio Colombo a mio padre durante un incontro che avvenne poco dopo la messa delle 12.00. E così, con questa promessa, cioè con quella di fare l’assessore alle cose belle, quindi allo sport e alla cultura, mi avviai lungo un cammino senza tempo. Ideai due strutture sportive potentine importanti: la piscina al Parco Montereale che sostituì i capannoni dismessi dal Comune e poi lo stadio dell’atletica leggera al Parco Macchia Romana. Intanto, l’intransigenza materna e la mia attenzione agli studi fecero in modo che mantenessi i miei obiettivi formativi, conseguendo la laurea nel 1965 con una tesi sui sistemi idrici ed irrigui della California meridionale.

 

Con la sua iscrizione alla DC in Basilicata avvenne contemporaneamente una grande partecipazione dei giovani, che quindi divennero molto più interessati alla politica.

Esattamente cosa succedeva e quale fu il percorso giovanile da lei compiuto?  

Ed è qui che si apre un altro capitolo. Facendo l’assessore, mi iscrissi al partito della DC e con me si iscrissero tanti amici. Pertanto, nel 1964 ci fu un’iscrizione in massa dei giovani ed essendo il pioniere di una folla di giovani, cosa che tanto inorgoglì Colombo, cominciò la mia frequentazione alla vita di partito. La sezione, i corsi organizzati alla Camilluccia, dove era particolarmente impegnato Fanfani, affinchè nascesse una nuova classe dirigente nella Democrazia Cristiana che potesse entrare nelle istituzioni con uno spirito cristiano per governarle, ormai rappresentavano la mia quotidianità. Ricordo che per gli amministratori c’erano corsi molto intensi e, d’estate, i dirigenti si dedicavano per quindici giorni ai seminari, dove i maggiori leader del partito, insieme alle più grandi espressioni del mondo cattolico, tenevano conferenze. La mia partecipazione al movimento giovanile si estinse a 25 anni, era una tappa collegata all’età, per poi passare alla vita di partito. Il movimento giovanile eleggeva i propri vertici di partito. Con il ruolo di assessore facevo anche parte degli organi di vertice nazionali. A quei tempi, il vice segretario nazionale della Dc era un lucano: Tommaso Morlino. Fu lui che favorì la mia presenza nell’esecutivo nazionale dei giovani democristiani. E così, mentre ero nell’esecutivo nazionale, entravo nel partito regionale, divenendo responsabile dell’organizzazione con la segreteria provinciale di Luigi Mistrulli.

 

Le elezioni politiche del ’68 rappresentano lo snodo della sua vita politica. Cosa ci racconta? 

Sì. Lo snodo furono proprio le politiche del 1968, quando il movimento giovanile chiedeva con forza a Colombo la mia candidatura in Parlamento. Che non avvenne per ragioni legate all’età. In effetti, avevo soltanto 27 anni. Per questo, nacque una forte tensione. Avevo capito che Colombo favoriva Luigi Mistrulli, che poi fu candidato e, purtroppo, non eletto. Lui aveva circa quarant’anni, quindi era più grande di me. In quella stagione politica venivano puntualmente elette quattro persone e queste furono: Colombo, Tantalo, Marotta e Merenda. Intanto nel 1968 si svolse il congresso, Mistrulli era lo sconfitto elettorale, ed io vinsi il congresso provinciale del partito, diventando uno dei più giovani segretari provinciali. All’epoca Verrastro era presidente della Provincia e diventò senatore, con me segretario provinciale del partito. In quegli anni 68 – 70 i quadri del partito subirono un rinnovamento: entrò tutta una nuova generazione a guidare la DC.

 

A questo punto si vota per la prima volta alle elezioni regionali. Lei si candidò? 

Il 1970 in Italia furono convocate per la prima volta, applicando la Costituzione, le elezioni regionali e fui candidato alle regionali. Fui eletto e così svolgevo contemporaneamente il ruolo di segretario provinciale e quello di Capogruppo del nuovo gruppo consiliare democristiano alla Regione con Verrastro presidente.

Gli anni 70-72 furono anni di grande tensione perché, come già anticipato, c’era stato un massiccio arrivo di giovani, ma c’era anche una classe dirigente più anziana e, insieme, dovevamo trovare un punto di equilibrio. Così, se Verrastro rappresentava la vecchia generazione, in quel momento, rappresentando i giovani ero l’interprete del cambiamento. In questo, Colombo mediava senza mai mortificare il cambiamento e spesso, quando trovava una classe di anziani poco qualificata e poco adatta al cambiamento, pian pianino li convinceva a favorire il rinnovamento della classe dirigente del partito. Quindi, Colombo era aperto al cambiamento, ma il successo non avveniva con atti autoritari. C’era sempre il confronto. Se un deputato fosse caduto, ciò sarebbe avvenuto non perché non era stato candidato, ma perché non aveva preso voti. Questo fu ciò che accadde quando, per esempio, Lillino Lamorte battette Lo Spinoso, venivano entrambi dal melfese, ma Lamorte prese più voti dello Spinoso. Oppure, ricordo quando io stesso presi più voti di Merenda su Potenza. Ecco quelle occasioni sviluppavano sempre un confronto affidato democraticamente alla società civile.

 

Mentre svolgeva il suo ruolo all’interno del Consiglio regionale, non pensava più al suo destino in Parlamento? 

Il 1972 fu un anno particolarmente interessante. Frequentando gli organi nazionali nel partito ero pronto ormai ad aprire la Basilicata a nuove presenze. Ma, rimaneva dentro di me uno strano sentimento perché era fissa l’amarezza del 1968, quando non fui candidato al Parlamento. E nonostante l’esperienza regionale, che mi aveva dato ampia soddisfazione, l’obiettivo Parlamento era un obiettivo rimasto nitido sia come aspirazione e sia anche come esigenza di entrare in un contesto diverso da quello che è solitamente l’ambiente territoriale, quello di provincia. E così quando furono convocate le elezioni politiche parlamentari, mi candidai, fui eletto ed ebbe inizio per me l’esperienza romana.

 

Con il suo arrivo in Parlamento arrivarono anche le scelte importanti e quindi anche le rinunce. Quali furono gli elementi che determinarono l’appartenenza a una corrente piuttosto che a un’altra?  

A Roma mi ritrovai nella filiera dei giovani democristiani, che appartenevano all’ala progressista riformista della sinistra democristiana, ma la mia provenienza era espressione della realtà dorotea giovane, vicina a Colombo. Era combattuto, quindi, e vivevo una vera e propria battaglia civile all’interno del partito. Se da una parte dominava in me un rispetto correntizio nei confronti della espressione lucana che aveva promosso la mia elezione,   dall’altra c’era lo slancio che mi spingeva verso una più incisiva formazione culturale della sinistra democristiana. Su questa strada incontrai due personaggi: De Mita e Aldo Moro. Per alcuni anni tenni una posizione di equilibrio tra l’ala moderata e prudente di Colombo e quella di Moro, che era la sinistra democristiana e che favoriva ad aperture verso i socialisti. Entrai nella gestione dei vari congressi dell’area democristiana della sinistra di base, che nel Mezzogiorno aveva un leader: Ciriaco De Mita.

Certo è che ci vuole coraggio a scegliere quando hai di fronte una grande potenza del Sud e della DC. Mi riferisco a Emilio Colombo. Ma, la scommessa di allora fu da me vinta. Aderii alla sinistra di base, avendo chiara e nitida la meta elettorale (tutti i problemi arrivano sempre a un nodo: il voto). Mettersi contro l’uomo più potente della Basilicata, della Nazione e della Democrazia Cristiana non era da tutti, ma fui guidato da un approccio sistemico: le aree più aperte mi seguivano come corrente. Poi, c’era anche una fetta di partito legata a Colombo che, con il sistema elettorale di allora, che proponeva tre preferenze, usavano la seconda preferenza per votarmi, riconoscendo in me quel rapporto di servizio reso alla Basilicata.

 

Come si strutturava la Democrazia Cristiana in Basilicata negli anni ’70?  

Nel 1975 ci fu un periodo di sostanziale tranquillità nella democrazia cristiana lucana: il partito era strutturato su due anime, la dorotea guidata da Colombo, che percentualmente prendeva i due terzi del partito, e l’anima della sinistra di base guidata da me e Scardaccione. In una situazione di assoluta correttezza, sia a livello regionale che nazionale, portavamo avanti le battaglie per la Basilicata tutti insieme, indipendentemente dalle correnti di appartenenza. I problemi della comunità si risolvevano attraverso un dibattito nel partito e con decisione delle istituzioni. Ovviamente, poi c’erano i problemi dei singoli di cui bisognava farsi carico. Anche quello era un servizio da rendere all’altro e, quindi, quando si doveva aiutare il singolo, si aiutava senza discuterne. Questo è stato anche un grande insegnamento che ha dato Emilio Colombo. Lui, nell’aiuto, non ha mai fatto discriminazioni tra le due correnti. Il vero confronto con Colombo è avvenuto sulla formazione della nuova classe dirigente perché capendo che doveva fare i conti con una generazione nuova, che era quella che seguiva me, ha dovuto rinnovare anche i suoi quadri politici. Tra le personalità politiche che sono venute alla ribalta con me o dopo di me, c’erano anche giovani che scelsero di appartenere alla corrente di Emilio Colombo. Cito i più significativi: Lamorte, D’Andrea, Viti, Boccia. Ecco loro quattro, pur appartenendo alla mia generazione, hanno scelto di stare nella filiera di Emilio Colombo. Ricordo dibattiti accesi, assemblee che duravano anche interi week -end, e seminari che si chiudevano nel rispetto dell’etica con gli interventi finali di Sanza e Colombo. Anche sulle chiusure dei dibattiti erano rispettati i ruoli e le differenze nel rispetto assoluto dell’età.

 

Lei ha fatto scelte importanti nel suo percorso politico anche durante gli anni orribili del terrorismo in Italia. Cosa accadeva in quegli anni nella sua vita e in Parlamento?  

Nel 1976 incontrai la donna della mia vita: Aurora, che ha sempre rappresentato per me una colonna e un confronto, oltre che una grande consigliera.

In questo periodo fui eletto nuovamente in Parlamento, ma cominciarono gli anni orribili del terrorismo. Nel solco tracciato dalla sinistra democristiana, quindi nel rapporto con De Mita e Moro, nel 1978, fui il più giovane sottosegretario che abbia mai avuto la Democrazia Cristiana. Vicino a Moro, giurai da sottosegretario agli esteri proprio la mattina di quel 16 marzo, quando Aldo Moro fu rapito. Il cielo era cupo, sirene in funzione continua. Ministro degli Interni: Cossiga, che ricordo mi mandò la macchina blindata. Andai a Palazzo Chigi, giurammo. Poi con Andreotti, che era Presidente del Consiglio, ci trasferimmo alla Camera e il Governo fu votato immediatamente dalle due Camere per l’emergenza che cresceva. I miei primi giorni da sottosegretario agli esteri sono stati terribili. Rimasi agli esteri per due anni e poi mi spostai agli Interni, dove rimasi per quattro anni con il ministro Virgilio Rognoni.

(Devo dire che tutti questi grandi uomini: Fanfani, Rumor, Piccoli, Andreotti, Colombo, Moro non davano confidenza alle nuove generazioni. Facevano fatica a parlare con la generazione intermedia: De Mita, Forlani, Bisaglia, Donat Cattin. Con noi più giovani c’era un rapporto di rispetto e correttezza. Nei miei confronti c’era un rapporto di correttezza. Quelli che non volevano bene a Colombo mi utilizzavano e, per questo, dovevo stare attento e capire quanto strumentale fosse il loro avvicinamento).  

 

Con la caduta della Prima Repubblica, lo scenario politico lucano cambia. Cosa rimpiange di quegli anni? 

Provo a fare un racconto vivace di quegli anni, senza rimpianti. Con la caduta della prima Repubblica e quindi con la Seconda Repubblica ho preso le distanze dalla Basilicata come rappresentanza elettorale. Fui eletto per l’ultima volta in Basilicata nel 1992, prendendo il massimo dei voti: 103.000. La legge elettorale era stata modificata e si votava con la preferenza unica. Ero avvantaggiato perché per la sinistra c’ero solo io. Mentre Colombo si portò dietro anche Viti e Lamorte. Quindi noi quattro sempre, ma io da solo nella mia corrente.

Nel 1994 Colombo non si candidò e non fece candidare parecchi di noi, perché subiva in qualche modo quello che era l’orientamento della vecchia classe dirigente democristiana che impaurita da Mani Pulite preferiva non farsi processare. Mentre noi della sinistra rifiutammo questo diktat che arrivava dalla magistratura, e pur pagando qualche prezzo ai fini dell’immagine, rifiutando l’invito di Colombo a non candidarci, avvisammo il partito nazionale che comunque ci saremmo candidati. Nel 1994 la DC implose, i gruppi si divisero. Da una parte Martinazzoli a sinistra e dall’altra Buttiglione. Io sarei dovuto andare con i popolari, con Martinazzoli, ma andai con Buttiglione che aveva costituito l’UDC (Unione Democratica dei Cristiani). Fu eclatante la scelta di Colombo che andò con i popolari, a sinistra. E così che la destra della DC andò a sinistra. Io allora scelsi di andare con Buttiglione. I miei amici mi seguirono nell’UDC, ma quella non era la nostra casa perché noi eravamo progressisti e seguire l’area moderata di Buttiglione per noi era una gran fatica. Per l’elezione del 1996, si prodigò Cossiga a farmi candidare a Roma con Forza Italia. E così fui eletto a Roma con l’uninominale nel collegio 5 della Tiburtina. Il coraggio dello scontro e il confronto l’avevo superato.

 

Sul piano politico, quali sono i personaggi lucani che hanno tentato l’impossibile per realizzare quei cambiamenti che hanno migliorato il sistema di vita lucano? 

Parto dai meridionalisti: Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti. Loro hanno fatto molto per la Basilicata. Poi a seguire tanti amministratori. Però, paradossalmente, sul piano del riordino infrastrutturale della Basilicata, riconosco che Scardaccione ha fatto molto. È lui che ha ideato le cinque grandi vie di comunicazione lungo i cinque fiumi della Basilicata. Prima di lui, la Basilicata era una regione chiusa. È stato lui l’uomo che ha aperto la Basilicata più di tanti altri. La classe dirigente attuale si è impoverita, purtroppo… ed io non sono in grado di dare loro nessuna risposta.

 

Non per diffondere scoramento, ma come valuta il livello della politica dei tempi attuali (in cui i social hanno soppiantato il modello di comunicazione politica “romantico”, quindi quello classico, fatto di piccoli gesti come: attaccare i manifesti, aprire e chiudere la sezione, il tesseramento) e cosa propone per recuperare il romanticismo della politica e il contatto con le persone?

Premesso che non possiamo creare nessuna piattaforma Rousseau, perché quella è la negazione della politica partecipata, ma non possiamo ugualmente negare che intanto ci sono i nuovi mezzi di comunicazione. Quindi, pensare che si possa tornare a un rapporto romantico della sezione democristiana, dove era possibile guardare negli occhi l’elettore per portare quello sguardo per sempre dentro sé stesso, beh questo forse è improbabile. Vanno cercati nuovi metodi di confronto per informare le nuove generazioni e metterle in condizioni di scegliere la loro classe dirigente attraverso un confronto telematico in questo periodo. Ma, a fine pandemia, a mio avviso, sarà necessario trovare una compensazione tra il sistema telematico, per essere presente in modo capillare, e poi sarà decisivo selezionare una classe dirigente che possa mantenere un rapporto vis à vis con l’elettore.

 

Che cosa pensa si possa fare in Basilicata per superare le emergenze e costruire un futuro migliore? 

La Basilicata deve decidere se vuole essere un’appendice delle regioni con cui confina, oppure se vuole vivere una sua soggettività, e ne avrebbe le ragioni storiche per farlo. Certo, sono ragioni fortemente compromesse in questo presente perché manca una spiccata leadership politica che si identifica con questa regione. Per superare i limiti attuali, bisognerebbe far partire dal basso un processo identitario della regione a cui sono chiamati gli uomini più colti della regione, non necessariamente i politici. Anzi io quasi li escluderei i politici, vista la pochezza che manifestano in questo periodo nell’imporre un progetto regionale. Chi ha voce deve venire avanti. Qualche piccolo segnale lo riscontro. Per esempio, il lavoro che fa Lacorazza, in questo momento con Appennino Civico, è uno sforzo. Ci sono delle persone che sono diventate padrone di un meccanismo e portano avanti un progetto regione offrendolo al confronto con quanti hanno la sensibilità di favorire lo sviluppo della regione. C’è qualcuno che ha sensibilità e che è su questa linea, per esempio Gianni Pittella. Ci sono persone, e non mi faccio condizionare dalla loro appartenenza culturale, però dico che qualcuno ha capito come deve porsi in relazione con il proprio territorio e con le realtà esterne al territorio. Gli uomini silenziosi che raccoglievano il voto andando casa per casa, oggi non hanno più futuro. Non sono in condizione di poter incidere. Devono appropriarsi dei nuovi mezzi, trovare un’identità regionale e portare questa identità all’attenzione nazionale. Se ci si riesce. Se non ci si riesce, allora è anche il caso di prendere in considerazione una ristrutturazione complessiva dell’ordinamento regionale nazionale.

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