FORTUNATO GIUSTINO

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FORTUNATO GIUSTINO

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Rionero in Vulture, 4 settembre 1848 – Napoli, 23 luglio 1932

Storico, scrittore, giornalista e politico fra i più importanti rappresentanti del Meridionalismo, studiò i problemi riguardanti la crisi sociale ed economica del sud dopo l’unità d’Italia, prospettando nei suoi interventi ed opere una serie di misure per fronteggiare la cosiddetta questione meridionale. Nella sua lunga attività parlamentare si impegnò a presentare ed appoggiare iniziative dirette al miglioramento delle infrastrutture, dell’alfabetizzazione e della sanità nel Sud.

Nato il 4 settembre 1848 a Rionero in Vulture da una famiglia di possidenti terrieri. Un altro esponente della famiglia, Giustino Fortunato senior, ebbe notevoli incarichi burocraticiː fu, infatti, giudice di pace durante la Repubblica Napoletana, procuratore e intendente sotto Gioacchino Murat e primo ministro del Regno delle Due Sicilie dal 1849 al 1852

Ancora adolescente, si trasferì con la famiglia a Napoli. Compì i primi studi presso il collegio dei Gesuiti e conseguì, in seguito, la laurea in giurisprudenza presso l’università “Federico II” nel 1869 ma non esercitò mai la professione giuridica in quanto molto appassionati fi studi storici.

Fu allievo di intellettuali come Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini e si focalizzò sullo studio della letteratura tedesca, in particolare su Herder e Goethe. Nel 1875, figurò tra i fondatori della Società Napoletana di Storia Patria. Nel 1880, Fortunato debuttò in politica, candidandosi alle elezioni per il collegio di Melfi.

Durante la sua attività parlamentare, divenne noto per essere un deputato scrupoloso nei suoi programmi, pronto a fornire giudizi ponderati sulle diverse questioni, stringendo rapporti di amicizia con molte personalità, tra cui Nicola Mameli, Napoleone Colajanni, Sidney Sonnino e in particolare Benedetto Croce, il quale dedicherà a Fortunato la sua opera Cultura e vita morale in segno di profonda stima.

Insieme a Leopoldo Franchetti, fondò l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno, di cui fu presidente onorario dal 1918 fino alla morte, e per questo si batté in Parlamento.

Il suo intento politico fu di “cooperare alla ricostruzione civile della patria”, perciò non aderì “né alla Destra né alla Sinistra”. A causa però del suo carattere scettico e polemico rifiutò diversi incarichi ministeriali. Ricoprì la mansione di segretario alla presidenza della Camera dal 1886 al 1897 e fu nominato senatore nel 1909

Fortunato lasciò la politica attiva nel 1919, ritornando a Napoli per dedicarsi agli studi economici e sociali, resi difficoltosi dalle sue precarie condizioni di salute per via di una grave malattia alla vista. Entrò anche in contatto con nuove generazioni di politici e antifascisti da cui appresero insegnamenti come Piero Gobetti, Guido Dorso, Umberto Zanotti Bianco, Nello Rosselli, Manlio Rossi Doria e Giorgio Amendola.

Con l’avvento del regime fascista, Fortunato cercò di mantenere in vita il suo impegno meridionalista e, sia pure in clandestinità, non manco di divulgare i suoi pensieri antifascisti. In questo periodo, scrisse il saggio Nel regime fascista (1926) che, onde evitare il pericolo della censura, fu stampato in poche copie e distribuito agli amici più intimi.

Nel 1930, nella sua residenza napoletana invitò un giovane Indro Montanelli, al tempo redattore di un piccolo quindicinale fiorentino, con cui tenne un discorso sulla questione meridionale. A distanza di anni Montanelli indicò Fortunato come il più grande e illuminato studioso del Sud.

Fortunato morì a Napoli il 23 luglio 1932.

Nel 2006, gli è stata dedicata l’Università telematica Giustino Fortunato, con sede a Benevento. A lui è intitolata anche la Biblioteca di Studi meridionali “Giustino Fortunato” di Roma, fondata nel 1923 con il contributo dello stesso Fortunato. Ad Avellino gli è intitolato l’istituto tecnico commerciale.

Le case dei Fortunato a Napoli, Rionero in Vulture e Gaudiano (frazione di Lavello) erano rinomati e ospitali luoghi d’incontro di intellettuali come Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini. Egli e il fratello Ernesto, l’uno da uomo politico, attivo ben oltre il mandato parlamentare, l’altro da imprenditore, coltivarono per tutta una vita, quasi simbioticamente, ambizioni egemoniche oltre i confini della Basilicata.

Ernesto praticamente provando la non ineluttabilità del carattere assistito dell’impresa agricola meridionale e la possibilità di diffondere, con gli spiriti imprenditoriali, un diverso sistema di relazioni sociali e umane con il lavoro contadino e bracciantile; Giustino, mirando al problema di una riforma delle classi dirigenti del paese, come problema soprattutto delle sue campagne, dove solo una moderna capacità produttiva dei ceti agrari poteva garantire la civilizzazione delle masse contadine, e offrire un solido retroterra a qualunque ipotesi di sviluppo.

Di orientamenti politici moderati e riformatori, Fortunato intrattenne buoni rapporti con gli intellettuali napoletani di Destra e per sempre ostile alla Sinistra

Come convinto assertore del parlamentarismo, contro le tentazioni autoritarie di rafforzare il potere esecutivo sul legislativo, criticò le avventure coloniali del Regno d’Italia e l’intervento nella prima guerra mondiale; intuì subito i rischi del fascismo, dissentendo in ciò da molti intellettuali dell’epoca, come Nitti, Croce, Salvemini, Gramsci e Kuliscioff che in principio non percepivano le gravi conseguenze che avrebbe portato.

Per la cura della malaria Fortunato riuscì a formare una schiera di medici di base, di grande rilievo visto che fino al 1900, nella sola Basilicata, i morti per la malaria furono circa 1500 ogni anno.

Grazie al suo impegno di Fortunato fu realizzato l’Istituto Tecnico di Melfi che, dopo essere arrivato a quattro sezioni nel 1892, compresa la prestigiosa sezione fisico matematica, ottenne la “statalizzazione” nel 1904, nell’ambito della legge speciale per la Basilicata.

Mosso dalla sua passione di letterato e studioso, riuscì a trasformare la sua casa di Napoli per molti anni, in “salotto letterario” frequentato da studiosi, politici, intellettuali del tempo.

Il suo giudizio sul Regno delle Due Sicilie fu molto critico, specie per la preferenza accordata nella politica di spesa pubblica, specie alle forze armate, a discapito degli altri servizi pubblici.

Come meridionalista individuava le cause dei problemi del meridione alle politiche dei secoli passati antecedenti all’unità, sfatando il luogo comune che vedeva il Meridione paradiso popolato da inetti. Il suo nome è legato alla questione meridionale in relazione ai suoi incisivi interventi a favore dei contadini del Mezzogiorno.

Il peggioramento della sua salute non gli permise una assidua presenza al Senato.

Fortunato morì a Napoli il 23 luglio 1932.

(tratto da Giustino Fortunato – Wikipedia)

Tratto da FORTUNATO, Giustino in “Dizionario Biografico” (treccani.it)

di Maurizio Griffo – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 49 (1997)

(omissis)

La svolta liberista

Fino alla fine del secolo Fortunato ammette che i suoi intenti di modifica della politica economica sulla questione agraria, sulla politica commerciale e sulla riforma tributaria si svolgono entro una prospettiva riformistica che assegna allo Stato il ruolo di principale attore della politica economica.

Nel 1898, dopo la difficile stagione di rivolte contadine e operaie che scuotono l’intera penisola, in Fortunato prende corpo la cosiddetta svolta liberista (Salvadori 1960, pp. 153-56; Barbagallo 1980, pp. 23-24; Galasso, in Giustino Fortunato, 1984, pp. 37-40; Griffo 1997; Petraccone 2005, pp. 54-56) che scaturisce dal disincanto circa la possibilità di un orientamento marcatamente riformatore dello Stato.

Secondo Fortunato, visto che lo Stato, dall’Unità alla fine dell’Ottocento, non era stato in grado di creare, attraverso politiche appropriate, i prerequisiti dello sviluppo nel Mezzogiorno, fatta eccezione per la politica di espansione della rete ferroviaria (Nella inaugurazione del tronco di ferrovia da Rionero a Potenza, 1897, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., pp. 73-79; Le strade ferrate dell’Ofanto, 1927), erano i singoli, le individualità a dover emergere per risolvere il problema dell’arretratezza. Gli esempi a cui Fortunato  si rivolge sono pochi ma, per la sua esperienza, significativi: il fratello Ernesto e la sua azienda modello in Basilicata (Calice 1982; Sacco, in Giustino Fortunato, 1984, p. 83) e il deputato di Cerignola Giuseppe Pavoncelli (1836-1910), grande proprietario terriero che aveva investito per la conversione delle colture estensive all’«agricoltura industrializzata». Per Fortunato, Pavoncelli è degno rappresentante di questa vecchia, ma inesauribile nostra stirpe, che alla sola vigoria individuale, al proprio invitto sentimento dell’io, checché mormorino i nuovi statolatri, deve – unica al mondo – la perenne sua vitalità di popolo civile (Malaria e chinino, 1910, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 512).

Il liberismo di Fortunato si trasforma e rimane sostanzialmente impregnato nella considerazione dell’iniziativa privata come unico motore dello sviluppo. Sul volgere del secolo, prende corpo un cambiamento nell’individuazione del soggetto politico che doveva portare avanti le riforme. Questo cambiamento rimane comunque coerente e rintracciabile tutto all’interno della visione politica, liberale, ed economica, liberista.

La questione agraria resta in definitiva al centro dell’analisi di Fortunato dato che «l’Italia è un paese eminentemente agricolo, e buona parte della sua fortuna deve attendere da’ campi» (Il dovere politico, cit., p. 119). Per il Mezzogiorno questa situazione è complicata da fatto che il dissesto del territorio, dovuto a caratteristiche climatiche e topografiche avverse, ha reso economicamente conveniente la conduzione latifondistica nelle campagne, dato che la coltura estensiva richiede un livello più basso di investimenti. «Il latifondo sarà una necessità economica e tecnica presso che irreducibile» fino a quando «sia tanta quaggiù la sproporzione fra il capitale circolante e la popolazione» (Pagine e ricordi, cit., 2° vol., p. 259).

Lo scritto in cui Fortunato espone in modo sistematico la propria visione sulla politica economica necessaria per superare i problemi derivanti al Mezzogiorno dalla politica commerciale e fiscale dei governi postunitari è La questione meridionale e la riforma tributaria del 1904. In questo periodo Fortunato si era allontanato dalla politica attiva e intendeva dedicarsi con maggiore attenzione allo studio soprattutto della storia del Mezzogiorno. Il saggio si apre riaffermando la necessità di chiarire in quali termini esiste una questione meridionale.

C’è tra il Nord e il Sud della penisola una sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi […] anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale (La questione meridionale e la riforma tributaria, 1904, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 311).

Le cause di questa situazione sono allo stesso tempo di matrice storica, per via dei diversi assetti istituzionali e amministrativi fra Nord e Sud a partire dal Medioevo, e geografica, di povertà e dissesto del territorio. Questi due ordini di fattori si intrecciano e si rafforzano nel tempo e non è pensabile per Fortunato risolvere un problema così complesso tramite l’intervento straordinario. La legislazione speciale è solo «un’illusione funesta quando non è una leggerezza imperdonabile» (p. 313). Un indirizzo più equilibrato sarebbe quello di riformare il sistema tributario e la politica doganale protezionistica (pp. 323-24). Nel primo caso Fortunato propone una riduzione delle imposte allo scopo di far aumentare i capitali disponibili per l’investimento, nella speranza di risollevare l’agricoltura, unica fonte di reddito derivato dalla produzione nel Mezzogiorno, e risolvere il problema della povertà che non dipende da un problema di distribuzione della ricchezza ma dal livello molto basso della produttività. Occorreva in sostanza correggere la sperequazione tributaria che si era stabilita dopo l’unificazione. Fortunato cita i lavori di Nitti, Maffeo Pantaleoni e Luigi Bodio per dimostrare che i cespiti del bilancio dello Stato non erano stati decisi secondo un piano preordinato ma sotto la spinta di situazioni contingenti. Il risultato era una pressione fiscale, rispetto alla ricchezza prodotta, proporzionalmente maggiore nel Mezzogiorno. Nel citare l’indagine di Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-1897, opera poi ridotta e pubblicata nel 1900 con il titolo Nord e Sud, Fortunato però non aderisce alla tesi centrale del lavoro secondo cui il Mezzogiorno all’unificazione aveva già avviato il processo di modernizzazione verso un’economia capitalistica e che l’Unità, e l’unificazione del bilancio dello Stato, avevano interrotto questo processo. A tale proposito sostiene che il Mezzogiorno all’unificazione non aveva queste caratteristiche ma, al contrario, «viveva di un’economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo» (p. 340), la maggior parte della produzione serviva per l’autoconsumo e non esisteva una vera e propria economia di mercato. Quest’arretratezza non era stata però sconfitta dalle politiche postunitarie che, soprattutto tramite la pressione fiscale, impedivano l’avviarsi di un processo autonomo di cambiamento.

Il secondo provvedimento considerato necessario per rimuovere l’arretratezza riguarda la revisione della politica di conduzione protezionistica dell’economia italiana che, a partire dal 1887, aveva prodotto due effetti negativi sull’economia meridionale: l’aumento dei prezzi dei beni precedentemente importati e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per le fasce più povere e le difficoltà di esportazione sui mercati europei dei prodotti dell’agricoltura meridionale, a causa della battaglia commerciale con la Francia innescata dalla tariffa protezionistica (pp. 330-32). Fortunato è contrario al protezionismo, in Parlamento vota contro la tariffa del 1887 anche se è consapevole di andare contro gli interessi dei grandi proprietari terrieri che traggono vantaggio dall’aumento del prezzo dei cereali e dall’incremento degli affitti dei terreni. L’orientamento protezionista però non tiene conto degli effetti sulla capacità di consumo delle «classi lavoratrici», può essere vantaggioso per le entrate dello Stato ma nuoce

allo sviluppo naturale della produzione e del consumo, essendo matematicamente provato, che la protezione non crea capitale, li sposta (Il problema economico, cit., p. 270).

Fortunato critica anche gli effetti della politica protezionistica sul versante della produzione industriale. L’industrializzazione che è stata realizzata ha generato scompensi sociali e di ordine pubblico dovuti agli «spostamenti artificiali nelle masse proletarie». Questa politica ha prodotto il paradosso per lo Stato che, da un lato, si deve difendere dal movimento operario e, dall’altro, si trova a perpetuare […] uno stato innaturale di cose, secondo cui il pane degli operai di una regione sia pagato con la fame dei contadini del resto d’Italia (Dopo il misfatto, 1900, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 214).

La politica di industrializzazione per il Nord del Paese e le politiche di intervento speciale nel Mezzogiorno del periodo giolittiano, che Fortunato con disprezzo definisce come «la politica pitocca del tozzo di pane» (Pagine e ricordi, cit., 2° vol., p. 10), hanno indotto una distorsione nella vita economica del Paese e hanno esonerato lo Stato da una politica organica di riforma tributaria «che ristabilisca l’equità nei rapporti con lo Stato fra Nord e Sud del paese» (p. 11).

La sua coerenza nell’orientamento politico si legge anche riguardo ad altri temi ricorrenti nel suo impegno da parlamentare. Egli è contrario al decentramento amministrativo e al reclutamento militare svolto su base territoriale (Le regioni, 1896, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 449-70; Reclutamento territoriale, 1895, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 433-45). Questi provvedimenti avrebbero indebolito il processo di formazione di uno Stato unitario forte e avrebbero rallentato il processo di unificazione economica del Paese. L’unità politica del Paese era per Fortunato un processo irreversibile ma doveva essere portato a compimento, come ricordato da Gaetano Cingari, tramite la rimozione di tutti i fattori di arretratezza e fondando l’unità generale non sulla forza degli interessi costituiti nelle due Italie ma promuovendo, con una politica riequilibratrice, le forze più aperte della produzione e della cultura (Cingari, in Giustino Fortunato, 1984, p. 6).

Per Fortunato l’azione politica, ispirata dal maestro De Sanctis, era lo strumento principale per cercare di comprendere la realtà economica del suo Paese e per tentare di migliorarla.

Attualità di Giustino Fortunato

 

Sono passati settant’anni da quando Fortunato non c’è più e sono cambiate molte cose. È cambiato per esempio il rapporto tra sud e nord e soprattutto si sono dilatati i termini della questione meridionale. Anzi, diciamo intanto che è come se fosse crollato l’interesse per i temi del sud, come se il dibattito intellettuale intorno a questi temi avesse perso forza mordente voglia e persino coraggio. C’è anche di vero che il concetto di sud si è prima dilatato ai sud del mondo e che si è guardato alle mille povertà del pianeta e alla divisione spaventosa tra opulenza e povertà,  poi, a partire dalla ripresa della riflessione sul Mediterraneo e con i discorsi ora contemplativi ora provocatori circa la superiorità del modello mediterraneo rispetto al degrado e al consumismo si è proposto un nuovo meridionalismo, un meridionalismo globale, allargato ai temi e alle urgenze del bacino del mare Nostro.

In un certo senso, all’Europa e all’America del denaro e del benessere, all’Occidente che si allinea con la Fallaci nella stramaledizione dell’Oriente fanatico sporco e cattivo oggi farebbe bene una ripresa delle idee di Fortunato. O perlomeno della linea interpretativa del politico lucano. Se non conosciamo la civiltà e la cultura e la quotidianità delle persone di cui parliamo, perché non proviamo a conoscerli meglio?

Rionero va famosa oltre che per le sue acque minerali, per aver dato i natali a due personaggi chiave della questione meridionale; Carmine Crocco, capobrigante e Giustino Fortunato. Questi uomini appartengono a fasce sociali opposte e tuttavia da punti diversi le loro azioni convergono in uno stesso risultato, la denuncia sociale. Di Crocco, a Rionero resta il mito, mentre di Fortunato la casa gentilizia al centro del paese.

Il paese è un tappeto di case in pietra appese a una collina e chiuso tra il Vulture, l’Irpinia e la valle di Vitalba. Una superstrada che collega Potenza a Foggia lo lambisce e apre l’area altolucana all’autostrada Napoli- Bari. Siamo insomma sul confine con la Puglia e dunque con la pianura adriatica. Culturalmente il paese è vivace, sta al crocevia di tre quattro borghi albanofoni e non, Ginestra, Ripacandida, Barile, Atella, Filiano, Forenza. E nel 900 ha dato i natali a intellettuali come Beniamino Placido, Giuseppe Russillo, Enzo Persichella e Nino Calice. Uno storico e politico, Calice, che partiva proprio dall’esperienza di Fortunato, si batteva per l’ammodernamento dell’area contro lo strapotere gestionale del capoluogo di regione e che aveva fondato una casa editrice di tendenza nel paese del Vulture.

Il palazzo neogotico di don Giustino è stato restaurato da poco, aveva subito guasti dal terremoto dell’80 e si sperava per la verità che una volta finiti i lavori venissero consegnati a Rionero le opere della collezione Grieco oggi in possesso della Pinacoteca Provinciale di Bari. Vari Giovanni Fattori, Boldrini, un Lega, un Morandi. Insomma, sessanta opere di prima qualità. Ma non torneranno mai, al modo in cui non torneranno a Palazzo San Gervasio i quadri della collezione D’Errico oggi in possesso della Soprintendenza di Matera. Segno questo che si intende continuare a mantenere le aree appenniniche in una sorta di dimenticatoio premoderno a dispetto dell’impulso portato nell’alto Bradano dalla Fiat.

Il grande giardino ricco di elci è circondato da un parallelepipedo di muri che costituiscono la casa di questa famiglia di ricchi proprietari terrieri venuta da Salerno nel 1720 e della quale avevano fatto parte uomini vicini sì ai Borboni, ma illuminati, al punto che un antenato di don Giustino, Pasquale Fortunato era arrivato a scrivere un poema sul brigante Angelo del Duca e del quale ci dà notizia il Croce.

Le librerie, le tappezzerie, gli arredi rinviano alla quotidianità di Giustino Fortunato, un intellettuale che restò certamente legato alla destra storica ma che rinnovò la propria visione politica aderendo con slancio all’Unità e mai avvertendo le lusinghe del passato borbonico. Studi di diritto a Napoli, frequentazioni importanti come De Sanctis, Settembrini, Torraca e poi l’attività politica, con l’elezione al Parlamento nel collegio di Melfi a partire dal 1880 e dal 1902 al Senato.

La visione del Sud nella mentalità dei parlamentari di quel tempo non era lontana da quella degli attuali compagni di Umberto Bossi. Al sud nascono cretini e delinquenti, le terre sono giardini che non sono stati fatti prosperare perché ci sono abulici svogliati e incapaci. Don Giustino capì che bisognava sfatare questo credo. Cominciò col raccontare in Parlamento la quotidianità dei contadini, la malaria, il colera, l’assenza di scuole e di strade. Invitò i colleghi a venire giù a visitare il paese, che non poteva essere raccontato senza averlo mai visto, chiese interventi speciali per una terra che a torto veniva vista come covo di delinquenti, ma che aveva tremende miserie e abissali ritardi ma che aveva conosciuto anche un glorioso passato prima del pernicioso avvento spagnolo. Il meridionalismo di Fortunato si apre allora a una visione che direi aristocratica e intellettuale. Dimostrare la grandezza della storia che ha accompagnato la vita di questi paesi, mostrare il blasone nobiliare che li distingue. L’intellettuale lucano affonda dunque in uno studio capillare e profondo e pubblica la serie di volumi di indagine storica, Rionero medievale; Il castello di Lagopesole, La badia di Monticchio e I feudi e i castelli della valle di Vitalba nel secolo XII, opere in cui trascrive e fa conoscere il ricco corredo di documenti archivistici che documentano la storia medievale dell’alta Basilicata.

Nelle battaglie parlamentari dell’onorevole Fortunato c’è ovviamente una serie di interventi come dire, ordinari, per il proprio collegio elettorale. Per esempio, l’impegno per la costruzione delle ferrovie ofantine, l’apertura dell’Istituto Tecnico di Melfi, le leggi di bonifica delle aree paludose e per la diffusione del chinino, la strada statale del Vulture, il collegamento ferroviario per Gaudiano.

Neutrale e non interventista durante la Prima guerra mondiale, una volta dichiarata dallo Stato la necessità di schierarsi tutti sul Piave Fortunato visse con spirito patriottico l’evento. Non capito dai conterranei fu accoltellato proprio nella sua Rionero nel luglio del 17.Fu l’inizio di una serie di amarezze. Fortunato se ne andò dal paese, trascorse i successivi quindici anni a Napoli, in via Vittoria Colonna. Visse ovviamente di studi, dando sfogo a una passione di indagine letteraria che non lo aveva mai abbandonato, con scavi su Orazio, Dante, Manzoni e sulla storia napoletana. Lo sterminato archivio epistolare che ci ha lasciato, migliaia di lettere conservate a Napoli, a Rionero ,a Bari, a Roma dice di un’attività febbrile, metodica, quotidiana. Don Giustino manteneva saldi i rapporti con Benedetto Croce e con lui firmava il manifesto degli intellettuali antifascisti che lo avrebbe costretto a rientrare nel silenzio della vita privata, negli studi patrii.

Morì il 18 luglio del 32,settant’anni fa, era quasi cieco, aveva ottantaquattro anni ed era nato il 4 settembre 1848, un anno fatidico per i grandi moti rivoluzionari scoppiati nel regno. Mi piacerebbe, in una di queste ricorrenze che la Regione Basilicata decidesse di avviare l’edizione generale di tutto Fortunato, magari appoggiandosi a piccoli ma intelligenti editori come quegli Osanna di Venosa che anni fa provarono una coraggiosa ristampa partendo da La badia di Monticchio ma furono costretti a fermarsi per assenza di sostegni.

(2002)

Raffaele Nigro

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