NITTI FRANCESCO SAVERIO

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NITTI FRANCESCO SAVERIO

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Melfi 19 luglio 1868—Roma 23 febbraio 1953

Giornalista, economista e meridionalista; nel 1904 Nitti è eletto deputato nel Collegio di Muro Lucano; nel 1911 fu nominato da Giolitti ministro dell’agricoltura, industria e commercio; dopo la Seconda guerra mondiale fu membro della Consulta Nazionale dal 1945 al 1946, deputato all’Assemblea costituente dal 1946 al 1948 e senatore di diritto dal 1948 al 1953.

Biografia tratta dall’Inserto storico allegato alla Rivista Ssef 2011 a cura di A. Di Majo e G.M. Paradiso (Elaborazione grafica, impaginazione e realizzazione stampa di N. Boriono e G. Sacco. Finito di stampare nel mese di dicembre 2011 Presso Duemme grafica s.a.s.   Roma).

Francesco Saverio Nitti nacque a Melfi, in Basilicata, il 19 luglio 1868, da Vincenzo e Filomena Coraggio. Per parte di padre, la sua era una famiglia del ceto medio professionale e di ideali liberali: antiborbonici furono suo padre ed i suoi zii, esiliati dopo i moti rivoluzionari del 1848. Ma l’influenza forse più profonda venne a Nitti dal temperamento e dalla concreta morale di sua madre, donna analfabeta di origini contadine.

Nitti condusse studi liceali prima a Potenza poi a Napoli, dove si trasferì nel 1882. Qui conseguirà la laurea in giurisprudenza nel 1890, con una tesi nella quale approcciava lo studio del Socialismo Cattolico, al quale dedicherà nel 1891 un ponderoso e fortunato volume. Già prima della laurea, spinto dalle difficili condizioni finanziarie della famiglia, Nitti avvia una intensa attività giornalistica. Nel 1888, appena ventenne, è già redattore del “Corriere di Napoli” e corrispondente, nei due anni successivi, della “Gazzetta Piemontese” e del “Resto del Carlino”. Intanto era pure iniziata la sua produzione scientifica. È del 1888 il saggio su L’emigrazione italiana e i suoi avversari: nel quale, con larghi riferimenti all’esperienza ed alla letteratura internazionale, argomenta contro il blocco della emigrazione proposto in un disegno di legge crispino. Il saggio apre il dibattito sui vantaggi dell’emigrazione, specie per le popolazioni meridionali, ed è dedicato a Giustino Fortunato, il quale avrà una influenza decisiva sul giovane Nitti e dal quale riceverà incoraggiamenti e supporti che saranno importanti per la sua carriera giornalistica e politica.

 

Giornalismo ed una non secondaria attività professionale di avvocato saranno le prime fonti di reddito del giovane Nitti, che negli anni Novanta è già un economista riconosciuto a livello internazionale.

 

La cattedra universitaria sarà dunque un approdo scontato e cercato. Nel 1899 viene nominato professore straordinario di Scienza delle finanze e diritto finanziario, dopo una vicenda concorsuale che lo vide contrapposto ad Ugo Mazzola: in una disputa che fu accesa, sino alla minaccia di duello tra i due contendenti, e che fu espressione di un conflitto ideologico tra due diverse visioni della scienza economica, che si ritrovarono nelle pagine delle due più importanti riviste economiche del tempo: il “Giornale degli economisti” di Mazzola, Pantaleoni e Pareto e la “Riforma Sociale”, diretta da Nitti dal 1894.

 

Da un lato erano dunque Mazzola, Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto, i quali costruirono schemi astratti e ricercarono leggi economiche generali, divenendo protagonisti di una rivoluzione teorica il cui risvolto pratico era nella ortodossia liberista, destinata ad avere grande influenza sulla cultura economica, e poca o nessuna influenza sulla vita politica; dall’altro lato era invece Nitti: che fu maestro nell’arte, solo apparentemente opposta, a quella della teoria della finanza pubblica, radicale ed interventista in politica, autore fecondo di lavori di economia applicata e di un manuale di Scienza delle finanze (1903) destinato ad un successo ventennale anche internazionale.

 

Nel 1904 Nitti è eletto deputato nel Collegio di Muro Lucano. Alla Carriera politica giungeva con una fama ormai consolidata di giornalista, economista e meridionalista. Nel 1900 aveva pubblicato Nord e Sud, versione sintetica del suo enorme lavoro sul Bilancio dello Stato (1900), nel quale illustrava la ripartizione territoriale della spesa pubblica e del carico tributario in Italia, dimostrandone lo squilibrio a favore del Nord.

 

Lo studio provocò un acceso dibattito scientifico, dietro il quale era però un profondo animus politico. In discussione era l’unificazione economica dell’Italia e le sue conseguenze per il Mezzogiorno. Giustino Fortunato, che pure di Nitti era stato mentore, ne contestò le elaborazioni: sostenendo che il Mezzogiorno era arrivato all’unificazione in condizioni economiche peggiori di quelle illustrate da Nitti, del quale però accoglieva pienamente la dimostrazione dei benefici che il Nord a spese del Mezzogiorno aveva conseguito dall’unificazione. La soluzione della questione meridionale era per Nitti nello sviluppo industriale, con Napoli come fulcro. Questa la tesi del suo La Città di Napoli (1902), nel quale era pure affermata la necessità di formare una borghesia responsabile produttiva. Si trattava cioè di accompagnare lo sviluppo economico con un vero e proprio programma di educazione nazionale: fatta l’Italia era ormai tempo che si facessero gli italiani.

 

Nel 1911 Nitti fu nominato da Giolitti ministro dell’agricoltura, industria e commercio, e nell’aprile dello stesso anno, presentò alla Camera il progetto di legge sul monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, che gli procurò l’opposizione delle grandi compagnie private e degli economisti di parte liberista.

La soluzione della questione

Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, fu ministro del Tesoro; ed al termine del conflitto, nella veste di Presidente del Consiglio (1919-1920), seguì le vicende del trattato di pace, del quale fu fortemente critico e nel quale individuava le premesse per futuri conflitti: al centro della sua analisi erano le riparazioni economiche imposte alla Germania e l’atteggiamento specialmente francese, lungo una linea di pensiero vicina a quella del Keynes delle “Conseguenze economiche della pace” (1919). Il governo Nitti si ritrovò a dover fronteggiare la crisi economica postbellica e l’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio.I provvedimenti economici intrapresi non conseguirono i risultati attesi, in una condizione sociale di estrema tensione, sfociata nel cosiddetto “biennio rosso”. Il 21 maggio 1920, Nitti formerà un nuovo governo, ma la durata sarà breve: Il fascismo è ormai incalzante. Caduto il governo, Nitti si ritira in Lucania, nella sua casa ad Acquafredda. Qui si dedica alla scrittura dei volumi dedicati alla situazione dell’Europa e destinati ad un largo successo internazionale: L’Europa senza pace (1921), La decadenza dell’Europa (1922) e La tragedia dell’Europa (1924).

Nel 1923, dopo la devastazione da parte dei fascisti della sua casa romana, Nitti sceglie la via dell’esilio. Sarà con la famiglia prima a Zurigo e poi a Parigi, dedicandosi intensamente all’attività antifascista, partecipi i suoi figli. Si dedica anche ad una intensa attività giornalistica e di conferenziere in Europa. Della libertà e della democrazia si farà fervente apostolo: sono del 1926 il suo volume La libertà, stampato da Piero Gobetti, e del 1932 l’ampio studio su La democrazia.

 

Nel 1943 Nitti è ancora considerato pericoloso dal regime nazi-fascista. Nell’agosto è arrestato dalla Gestapo a Tolosa e deportato in Austria: durante la prigionia scriverà le Meditazioni dell’esilio, poi pubblicate nel 1947. Liberato dai francesi nel maggio 1945, Nitti rientra in Italia e ritorna sulla scena politica. Sarà membro della Consulta Nazionale dal 1945 al 1946, deputato all’Assemblea costituente dal 1946 al 1948 e senatore di diritto dal 1948 al 1953. Alle elezioni del 1948, Nitti non parteciperà: profondamente prostrato dalla perdita della moglie. Alla politica tornerà nel 1952: si opporrà alla “legge truffa”, attivandosi nel movimento politico Alleanza democratica nazionale, e sarà alla testa di una aggregazione elettorale laica e di sinistra che si presentò alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Roma contro la Democrazia Cristiana. Sarà eletto ed alla opposizione siederà nei banchi del consiglio comunale di Roma. A Roma morirà il 20 febbraio del 1953.

 

 

SCRITTI SULLA QUESTIOME MERIDIONALE

 

Nel 1860, soprattutto dopo il 1876, l’Italia meridionale è stata considerata come il paese destinato a formare le maggioranze ministeriali. I prefetti quasi non hanno altra funzione che di fare l’elezione. Un ex ministro dichiarava alla Camera, avergli un prefetto dichiarato essere arbitro delle elezioni: poiché poteva mandare tutti i sindaci della sua provincia in carcere. Si è speculato da ogni partito sull’ignoranza e sul dolore. Dove bisognava tagliare il male, si è incrudito. Intere regioni sono state abbandonate a clientele infami.

 

Così il paese meridionale, che ha visto seguire in politica, in dogana, in finanza, in amministrazione l’indirizzo più opposto ai suoi interessi, è diventato scettico. Pur di non pagare metà dell’imposta fondiaria, rinunzierebbe a metà dello Statuto. Si considera il Mezzogiorno come una Vandea legittimista, come il baluardo delle istituzioni, e invece non è né fedele, né infedele, è indifferente. I Borboni erano molto amati dal popolo, che essi volevano ignorante e felice: l’anno prima che andassero via facevano viaggi trionfali. E pure perdettero il regno da un giorno all’altro. I paesi che non fanno politica sono i più rivoluzionari: gli odi covati nel silenzio, le dominazioni cieche, son quanto di più rivoluzionario si possa immaginare. Niente in questo senso v’è di più conservatore dei parlamenti e dei sistemi elettorali.

 

[Tratto da “Il bilancio delle Stato dal 1862 al 1896-97. Nord e Sud” (1900), rist. in Scritti sulla Questione meridionale, vol. II, a cura di Armando Saitta, Editori Laterza, Bari, 1958, p.422]

 

È stato tante volte ripetuto che la prosperità industriale del Nord è stata conquistata con il sacrificio del Sud; può ora la situazione mutare? Non pochi quindi ora credono che una politica di libero scambio sarebbe assai vantaggiosa al Sud: senza negare che in qualche caso bisognerà modificare alcuni eccessi della tariffa doganale italiana, è assai dubbio che il libero scambio modificherebbe in alcuna guisa la situazione del Mezzogiorno. Chiedere però, come si fa, a gran voce la riduzione delle tariffe industriali è cosa di efficacia più che dubbia. Infatti, tranne l’idea di fare volontariamente male al Nord (idea non buona e non giusta), l’Italia potrà per i suoi prodotti agricoli avere condizioni più vantaggiose solo minacciando la produzione industriale dei paesi che più importano derrate agrarie: a titolo di esempio è evidente che la resistenza degli industriali agli agrari in Germania sarà tanto più grande quanto più vi sarà pericolo di veder ridotta l’esportazione industriale.

[Tratto da “Napoli e la Questione meridionale” (1903), rist. in Scritti sulla Questione meridionale, vol. III, a cura di Manlio Rossi Doria, Editori Laterza, Bari, 1978, pp. 28 -29]

 

Pure la rinnovazione del Mezzogiorno non può venire che dagli stessi meridionali. Se l’unità politica deve essere, non solo rispettata, ma difesa sino al sacrifizio, essendo indispensabile non a questa o a quella, ma a tutte le parti d’Italia, ciò però non vuol dire che si deva continuare nella politica seguita finora. Bisogna quindi svegliare nei meridionali la coscienza politica, bisogna ridestare lo spirito di resistenza, educare con ogni sforzo alle tendenze industriali della vita moderna. Opera non lieve, non breve, non facile. La stampa politica diffusa nel Mezzogiorno è in gran parte nelle mani di interessi settentrionali; molti del Nord vedono con antipatia l’opera di rinnovazione, sopra tutto coloro che speculano sullo Stato. La Lombardia e il Piemonte non vogliono perdere l’Italia meridionale: ma molti lombardi e molti piemontesi non desiderano che l’Italia del Mezzogiorno si rinnovi economicamente, che Napoli diventi una grande città industriale. Il Mezzogiorno è una colonia di consumo.

 

[ivi, pp. 32-33]

 

 

SCRITTI DI ECONOMIA E FINANZA

 

Del resto, anche i sostenitori più convinti dell’individualismo, non possono ammettere ragionevolmente il non intervento assoluto dello Stato nelle lotte economiche, che avvengono quotidianamente sotto i nostri occhi, e a cui noi assistiamo ogni giorno, spettatori o attori. In economia come in politica il non intervento assoluto non esiste, o, per dir meglio, non è che una forma particolare di intervento. Se nelle lotte fra capitalisti e lavoratori lo Stato mostra di non intervenire e di lasciare piena libertà agli uni ed agli altri, interviene invece in forma indiretta. Poiché questo non intervento, si risolve in un intervento indiretto, in favore della classe più forte.

[Tratto da “L’assicurazione obbligatoria e la responsabilità dei padroni e imprenditori per gli infortuni sul lavoro” (1890), rist. in Scritti di Economia e Finanza, vol. II, a cura di Federico Caffè, Editori Laterza, Bari, 1960, p. 484]

 

Dati i prezzi del carbone, la sostituzione della elettricità al vapore è, nella più gran parte dei casi, conveniente per impieghi industriali. Ma la sostituzione non può avvenire che limitatamente per opera dei privati: il più grande vantaggio non può essere ottenuto se non sostituendo l’azione collettiva a quella individuale manchevole.

 

Che la sostituzione su larga scala della elettricità al vapore sia anche in Italia impossibile, date le forme attuali, è evidente: e già molti tecnici valorosi, come il Canevari, patrocinano forme nuove di consorzi obbligatori; e altri invocano provvedimenti anche più arditi. L’energia derivata dalle cadute di acqua è proprietà della nazione intera; sostituirà un giorno completamente o quasi il vapore; acquisterà un valore sempre più grande. Non essendo prodotta da alcun lavoro e l’opera di appropriazione essendo relativamente semplice, tutte le forme di concessioni, quando vincolino l’avvenire del paese, sono da ritenersi come condannevoli.

 

Ciò che occorre, dunque, è nazionalizzare l’energia idroelettrica: come l’acqua dei laghi e dei fiumi è proprietà collettiva, la forza da essi prodotta non può essere appropriata a benefizio, di singoli individui; ed è lo Stato, che deve regolare la produzione e la distribuzione dell’energia idroelettrica nel modo più conveniente.

 

[Tratto da “La conquista della Forza” (1905), rist. in Scritti di Economia e Finanza, vol. III, parte II, a cura di Domenico Demarco, Editori Laterza, Bari, 1966. pp. 226-227]

 

 

PRINCIPI DI SCIENZA DELLE FINANZE

 

Non vi è dunque, non si è mai verificato un processo di stratificazione progressiva, come alcuni hanno preteso: non poteva né meno un simile processo verificarsi progressivamente. Forse anche vi sono alcuni paesi dove, tenendo conto di tutto ciò che si è detto, i cittadini danno ora allo stato proporzionalmente meno che in passato: benché quasi dovunque si paghi assai più ora che prima. In ogni modo, se è assai difficile stabilire confronti con società assai lontane, si può bene stabilirne con quelle prossime a noi. E bisogna allora riconoscere che da un secolo a questa parte tutte le spese pubbliche, spese di Stato, spese locali sono cresciute assai più che in passato, per aumento della solidarietà che si va determinando, per cause di natura assai differente. Gli aumenti del secolo XIX sono veramente reali e in qualche guisa, non ostante lo sviluppo straordinario della ricchezza, i cittadini sopportano carico sempre più grave.

 

Né le variazioni del valore della moneta, né le variazioni dei redditi spiegano sufficientemente gli aumenti che si sono verificati da mezzo secolo in qua. I bilanci della Francia, dell’Inghilterra, della Russia aumentano da un anno all’altro di diecine, qualche volta di centinaia di milioni. Ora questi aumenti sono reali: in quanto niuna delle condizioni limitative indicate innanzi ha importanza, o ne ha assai trascurabile. Che cosa determina dunque questi accrescimenti che sono cause di inquietudini vive, che rompono spesso l’equilibrio dei bilanci meglio ordinati? Gli aumenti avvenuti durante il secolo XIX e sopra tutto nella seconda metà sono reali e derivano principalmente:

 

a) dall’aumento continuo e incessante delle spese militari. Le cifre raccolte e pubblicate con tanta cura da De Bloch, nella sua famosa opera, che ha provocato l’iniziativa dello Czar in favore della pace, sono veramente preoccupanti. In cinquanta anni le spese militari sono cresciute dovunque con una rapidità quasi fantastica: e l’accrescimento è stato egualmente rapido nei paesi repubblicani come nei paesi monarchici.

 

Nei paesi più liberi, anzi, in Inghilterra, in Svizzera, in Svezia, ecc. la progressione ha assunto forme che non si trovano né meno nei paesi a regime assoluto. In passato si facevano molte più guerre: ma si spendeva molto meno, a cominciare dalle armi fino all’equipaggiamento dei soldati. Un pezzo di ferro sopra un’asta di legno era una lancia: le armi e gli strumenti di guerra erano generalmente semplici. Le armi moderne sono quasi sempre costosissime: un grande cannone di acciaio costa spesso più che l’armamento di un grosso stuolo di soldati antichi. La più grande flotta militare di Atene costò forse meno di una sola delle grandi corazzate moderne.

E poi, fino alle grandi guerre napoleoniche, gli eserciti permanenti quasi non esistevano. Le armi erano il mestiere di una minoranza: l’educazione militare, d’altronde, si faceva più facilmente. Dunque, le spese erano poche in rapporto alla loro continuità; si guerreggiava di più ma si spendeva di meno; mentre ora è la pace stessa che costa ai grandi stati ogni anno quanto non costò la più grande guerra dell’antichità. Una guerra moderna costa spesso cinque, sei miliardi, qualche volta assai più: e se guerre non si combattono in Europa è per la preoccupazione delle perdite immani di uomini e di danaro che porterebbero a vincitori e a vinti.

 

b) dai grandi lavori pubblici. È proprio da mezzo secolo che l’impiego del vapore e dell’elettricità, come forze motrici; l’introduzione su vasta scala del telegrafo elettrico, hanno determinato spese pubbliche ingenti. Il mondo non aveva esempio di una trasformazione che anche lontanamente si potesse rassomigliare a quella ch’è avvenuta. Così non ostante I’enorme sviluppo della ricchezza in alcuni paesi, il prezzo del capitale si mantiene ancora alto per gl’investimenti continui in lavori pubblici, oltre che per gli investimenti industriali, i quali tendono a prendere forme sempre più svariate. In molti paesi lo Stato ha costruito per suo conto oltre le strade pubbliche, che in generale al principio del secolo XIX erano quasi dovunque scarsissime, anche diecine di migliaia di chilometri di ferrovia e dovunque diecine o centinaia di migliaia di chilometri di telegrafi elettrici:

 

c) dall’aumento dei debiti pubblici. È vero che i debiti si fanno perchè si devono fare le spese; ma è anche vero il contrario, cioè che molte spese non si potrebbero fare se non vi fossero i debiti pubblici. E di quanto son cresciuti i debiti degli stati! Il 23 settembre 1800 il capitale nominale del debito francese era di 713,6 milioni (secondo de Foville); nel 1891 era già di 30,170 milioni (secondo Pelletan); nel 1897 (secondo Krantz) di 31,093 milioni. In Italia gl’interessi dei debiti inscritti al momento dell’unificazione erano di 111 milioni; gl’interessi pagati nel 1895-97 sono stati 556 milioni.

 

Non vi è quasi alcun paese dove non si sia ricorso in misura larga, spesso troppo larga, ai debiti pubblici. Parea che tra i grandi stati di Europa solo l’Inghilterra rappresentasse una fortunata eccezione; poiché godeva di condizioni naturali straordinariamente favorevoli e poteva senza sforzo destinare una parte delle sue entrate a estinguere i vecchi debiti piuttosto che ad accenderne nuovi. Ma ora anche essa, a causa della sua nuova politica, ricorre in larga misura al debito;

 

d) dallo sviluppo di tutte le forme di prevenzione sociale per cui l’azione economica dello stato è cresciuta.

L’azione dello stato era diretta nel passato a reprimere le forme più gravi dei mali della società piuttosto che a prevenire: non solo ora le condizioni della società sono mutate, ma lo sviluppo stesso della conoscenza induce a seguire una via opposta. Quando l’azione si limitava a curare il male o ad attenuarlo, si poteva bene ricorrere alla iniziativa privata; gli ospedali, le opere di pietà, i ricoveri fatti per curare o attenuare mali che colpiscono gli occhi e l’anima poteano sorgere per iniziativa di privati. Ma l’azione dei privati non è richiamata d’ordinario da alcuna forma di prevenzione. Cosi le misure igieniche o sanitarie dirette a prevenire i mali, non possono essere prese che dallo Stato e dagli enti collettivi minori. La prevenzione come un fatto generale e volontario richiede troppo sviluppo della cultura e della morale, perchè possa mai avverarsi del tutto;

 

e) dalla partecipazione sempre crescente delle classi popolari alla vita pubblica, per cui il governo e gli enti locali hanno dovuto assumere servizi che non erano prima creduti di utilità generale o che, in ogni modo, venivano negletti. È vero che l’aumento delle pubbliche spese è avvenuto anche, e qualche volta, più nei governi assoluti che nei liberi, ma è innegabile che questi ultimi abbian dato assai spesso l’aire.

Un governo nazionale, diceva nel 1832 de Rémusat, alla Camera francese, non è spesso economico. Si è visto assai di frequente il potere assoluto costar poco ai popoli, e per mantenersi ridurre le imposte e trascurare l’interesse pubblico. Poiché ora il controllo è assai più largo che in passato non fosse e le spese dei sovrani sono distinte da quelle pubbliche, e nei bilanci figurano dovunque nettamente divise, l’imposta non è considerata come una perdita: e le spese sono per la maggior parte veramente spese pubbliche, nel senso che son fatte nell’interesse del pubblico. I governi costituzionali, che sono succeduti alle vecchie forme autoritarie, non permettono più di considerare l’amministrazione come un nemico, l’imposta come flagello, il danaro che si dà allo Stato come denaro perduto. Oramai è assai difficile che si possa fare una distinzione netta tra governo e paese; e se qualche volta si esalta l’uno contro l’altro, è trascurando del tutto gli elementi di giudizio, che questa differenza si stabilisce. In ogni modo non si può negare che le classi popolari, partecipando in più larga misura al governo, impongano spese di cui non era prima esempio o ch’erano limitatissime: spese per la istruzione obbligatoria e la cultura popolare, spese di igiene e di previdenza sociale, assicurazioni obbligatorie ecc. che prima non esistevano né meno. La estensione del principio sociale nella politica degli stati moderni non è ultima causa dell’accrescimento grandissimo delle spese. E perciò che si verifica un fatto che altrimenti sarebbe stato impossibile: l’individualismo tende spesso al cesarismo, credendo nella pratica che solo in tal guisa possano i principi di libertà avere largo svolgimento e i poteri dello Stato ridursi.

 

Sono dunque tutte queste cause, principalmente sono queste condizioni nuove, che hanno determinato da un secolo a questa parte un accrescimento reale delle spese pubbliche.

 

[Tratto da Principi di Scienza delle Finanze (1903), rist. in Scritti di economia e finanze, vol. VIII, Laterza, Bari, 1972, pp. 82-85]

Molti comuni tendono a esercitare direttamente i tramways, il gaz, la luce elettrica, gli acquedotti per l’acqua potabile, ecc. Alcune volte queste imprese sono molto remunerative: ma anche qualche volta non sono. Nella stessa Inghilterra moltissime intraprese municipali non danno un vantaggio apprezzabile; molte addirittura sono in perdita. L’idea, dunque, che il comune eserciti largamente intraprese di utilità pubblica, va giudicata solo da un punto di vista della convenienza economica. Ma non è a credere possa riuscire vantaggioso o ammissibile l’esercizio di farmacie, di teatri, ecc. come spesso è stato proposto; si tratta qui di industrie non limitate, in continua mutazione e dove i privati fanno assai meglio che le pubbliche amministrazioni.

Anche la panificazione municipale (quando non concorrano circostanze eccezionali

favorevoli, come l’utilizzazione de cascami o dechets di energia elettrica) è una intrapresa assai pericolosa e di nessun vantaggio.

 

I soli casi, dunque, in cui si può ammettere utilmente la municipalizzazione di un servizio, è quando rivesta i caratteri già indicati; quando il comune può produrre a un costo eguale, se non inferiore, ai privati; e quando mediante l’assunzione di un pubblico servizio in economia diretta, si può avere un vantaggio finanziario che permetta diminuire le vecchie imposte ed evitarne nuove.

 

Ciò che riesce particolarmente pericoloso nelle imprese municipali è che la gestione di grandi aziende dà al comune, o per dir meglio, ai suoi amministratori, potenti mezzi di corruzione e di dominio, forma una classe privilegiata di operai, che tendono piuttosto a considerarsi come impiegati con danno evidente della impresa; isterilisce molte attività che si sarebbero determinate. La esperienza della stessa Inghilterra non ha da questo punto di vista un valore decisivo; i comuni che hanno municipalizzato largamente i pubblici servizi non avendone in generale ricavato i benefizi che si ripromettevano in principio.

 

Un gran passo si farà quando, smesse le illusioni frequenti in questa materia, si tenderà a restringere la municipalizzazione a quei grandi servizi, che sono specialmente indicati dalla loro natura (illuminazione, acqua, tramways) e a piccole intraprese che la convenienza pratica può indicare, in ciascuna città; ma sopra tutto quando si terrà presente che intrapresa a benefizio di un municipio non vuol dire intrapresa esercitata dagli amministratori di un municipio.

 

Molte volte è preferibile che il comune faccia esercitare per conto proprio una pubblica intrapresa da una società privata: i benefici della gestione privata sono così uniti al vantaggio di vedere i proventi di essa destinati alla collettività. Molte volte anche bisogna che il municipio, per non moltiplicare le spese di gestione, di controllo, di riscossione, ricorra a più semplici forme. Così, un municipio che eserciti un acquedotto può colpire tutti cittadini in vista di un consumo medio probabile secondo le professioni e il fitto dell’abitazione e riscuotere la quota di consumo mediante la forma semplice dei ruoli delle imposte dirette. La legislazione dovrà tendere appunto a dare ai comuni le più vaste intraprese che possano assicurare un reddito rilevante; ma anche a darle in modo che non rappresentino una inutile e dannosa distruzione di ricchezza.

In Italia molti comuni hanno municipalizzato non poche intraprese industriali: un progetto già approvato dalla Camera dei deputati contiene le norme che regoleranno d’ora in poi questa materia.

 

[Tratto da Principi di Scienza delle Finanze (1903), rist. in Scritti di Economia e Finanza, op. cit., lib. V, Cap. II, pp. 682-683]

 

 

SCRITTI POLITICI

 

Spesso […] la mancanza di due grandi partiti tradizionali e l’esistenza di partiti numerosi, crea realmente difficoltà alla formazione di governi stabili. Noi abbiamo visto in qualche paese crisi ministeriali prolungarsi per settimane e mesi. I partiti di reazione ne han tratto argomento di accusa per il sistema parlamentare, che non risponde, secondo essi, alle esigenze della vita moderna. E che cosa si potrebbe sostituire se non la dittatura, cioè l’arbitrio individuale?

 

In generale ogni reazione comincia col discreditare i parlamenti. Il linguaggio dei reazionari da qualche secolo è sempre lo stesso, come il linguaggio della tirannia è sempre lo stesso. La tirannia, sia esercitata da un individuo, o da un piccolo numero di individui, confonde sempre sé stessa con lo stato e lo stato con la nazione. I tiranni in tutti i tempi han detto sempre di avere le migliori intenzioni, di voler salvare il paese dall’anarchia, dal disordine, di volersi circondare degli uomini migliori. La colpa, se non riescono a fare il bene è degli avversari, che paralizzano la loro attività.

 

La caratteristica di ogni impresa di dittatura di reazione consiste in un continuo e aspro discredito del parlamento. Il regime parlamentare è sempre accusato di debolezza, di impotenza, si specula sempre sul danno che producono i contrasti individuali. Ora ogni tirannia ha una debolezza ben maggiore perché, per mantenersi deve creare una serie di interessi e sviluppare tutte le forme del parassitismo.

 

Nei regimi liberi ogni atto della vita dello stato è soggetto a controllo, ogni spesa determina una responsabilità. Se vi sono inconvenienti, se vi sono colpe, si manifestano sempre; spesso anzi la lotta dei partiti tende ad esagerarli. Ma che cosa accade dove non vi è controllo e dove la stampa non è libera?

 

[Tratto da “La libertà” (1926), rist. in Scritti politici, vol. XI, Bari, Laterza, 1961, pp. 69-71]

 

 

BIBLIOGRAFIA NITTIANA

 

Si dà qui di seguito un elenco cronologico dei principali scritti nittiani, comparsi in volume o su riviste specializzate*.

 

L’emigrazione italiana e i suoi avversari, Roux, Torino-Napoli 1888.

Il principio di nazionalità e i precursori di Pasquale Stanislao Mancini, in «Rassegna di scienze sociali e politiche», VII, 1889.

L’assicurazione obbligatoria e la responsabilità dei padroni e imprenditori per gli infortuni sul lavoro, in «Rassegna…», VIII, 1890.

I telefoni e l’esercizio di Stato, in «Rassegna…», VIII, 1890.

Il socialismo cattolico, Roux, Torino-Roma 1891.

L’armata della salute, in «La Scuola positiva», I, 1891.

Le scuole economiche, in «La Scuola positiva», I, 1891.

Maurice Block e la questione dei I maggio, in «La Scuola positiva», I, 1891.

Studi di sociologia. Il primo maggio, in «La Scuola positiva», I, 1891.

Poor Relief in Italy, in «The Economic Review», II, 1892.

La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà, in «Rassegna agraria, industriale, commerciale, politica», 1892.

Socialismo scientifico e socialismo utopistico, in «Rassegna di scienze sociali e politiche», X, 1892.

L’assistenza pubblica in Italia. L’azione della Chiesa e l’azione dello Stato, Vecchi, Trani 1892.

Le mouvement economique et social en Italie, Bruxelles 1892.

Agricultural Contracts in South Italy, in «The Economic Review», III, 1893.

The financial situation in Italy, in «The Economic Journal», 1893.

Strikes in Italy, in «The Economic Journal», 1893. .

Il «Truck system» e la insequestrabilità dei salari, Bertero, Roma 1893.

I problemi del lavoro, Unione Cooperativa Editrice, Roma 1893.

L’ora presente, Roux, Torino-Roma 1893.

Il programma economico-sociale del conte L. Tolstoi, in «La Nuova Rassegna», I, 1893.

L’Italia e le nuove correnti commerciali, in «La Nuova Rassegna», I, 1893.

Le «University extensions» e la questione sociale in Inghilterra, in «La Nuova Rassegna», I, 1893.

Gli scioperi in Belgio, in «La Nuova Rassegna», I, 1893.

Dopo Aigues Mortes, in «La Nuova Rassegna», I, 1893.

Il partito degli agrari e il suo significato sociale, in «La Riforma sociale», (da ora LRS), I, 1894.

La reazione pericolosa, in LRS, I, 1894.

Il protezionismo intellettuale, in LRS, I, 1894.

Il programma economico-sociale dei cattolici tedeschi, in LRS, I, 1894.

L’associazione per la libertà economica ed i suoi preconcetti, in LRS, I, 1894.

I dubbiosi, in LRS, I, 1894.

La popolazione e il sistema sociale, Roux, Torino-Roma 1894.

L’alimentazione e la forza di lavoro dei popoli, in LRS, I, 1894.

Il lavoro, in LRS, II, 1895.

L’economia degli alti salari, in LRS, II, 1895.

Le Borse e le Camere del lavoro, in LRS, II, 1895.

La superstizione socialista, in LRS, II, 1895.

La misura delle variazioni di valore della moneta, in LRS, II, 1895.

La soppressione delle Scuole superiori di agricoltura di Portici e di Milano, LRS, II, 1895.

La nuova fase dell’emigrazione d’Italia, in LRS, ID, 1896.

La législation du travail en ltalie, Bruxelles 1897.

La trasformazione sociale, in La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l’Impero, Bemporad, Firenze, 1897.

Sui moti di Napoli del 1820, in La vita italiana nel risorgimento. Prima Serie (1815-1831), Bemporad, Firenze, 1897.

Il saggio di sconto e le imposte sulla circolazione bancaria, in «Atti del R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», Napoli, 1898.

Le sommosse dell’ieri e le repressioni dell’oggi, in LRS, V, 1898.

Il brigantaggio meridionale durante il regime borbonico, in La vita italiana nel Risorgimento. Seconda Serie (1831-1846), Bemporad, Firenze 1899.

Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia, in «Atti del R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», Napoli 1900.

Nord e Sud, Roux, Torino-Roma 1900.

Su i recenti casi di Napoli, in LRS, VII, 1900.

I moti di Napoli del 1848, in La vita italiana nel Risorgimento. Terza Serie (1846-1849), Bemporad, Firenze 1900.

L’Italia all’alba del secolo XX. Discorsi ai giovani d’Italia, Roux e Viarengo, Torino Roma 1901.

Gli eroi della Rivoluzione, in La vita italiana nel risorgimento. Terza Serie (18461849), Bemporad, Firenze 1901.

La città di Napoli: studi e ricerche sulla situazione economica presente e la possibile trasformazione industriale con un’appendice su le forze idrauliche dell’Italia e la loro utilizzazione, Alvano, Napoli 1902.

Nuove ricerche sulle forze idrauliche dell’Italia e la loro utilizzazione, in «Atti del R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», Napoli 1903.

Napoli e la questione meridionale, Pierro, Napoli 1903.

Principi di scienza delle finanze, Pierro, Napoli 1903.

La ricchezza dell’Italia, in «Atti del R. Istituto d’Incoraggiamento», Napoli 1904.

La ricchezza dell’Italia. Quanto è ricca l’Italia. Come è distribuita la ricchezza in Italia, Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1905.

La conquista della forza. L’elettricità a buon mercato. La nazionalizzazione delle forze idrauliche, Roux e Viarengo, Torino-Roma 1905.

Il partito radicale e la nuova democrazia industriale. Prime linee di un programma del partito radicale, S.T.E.N., Torino-Roma 1907.

Il porto di Napoli, Cooperazione Tipografica, Napoli 1910.

Atti della inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, vol.V-Basilicata e Calabria; t.III,

Relazione della sottogiunta parlamentare (rel. on. F.S. Nitti), Bertero, Roma 1910.

Il capitale straniero in Italia, Laterza, Bari 1915.

La Guerra e la Pace, Laterza, Bari 1916.

L’Europa senza pace, Bemporad, Firenze 1921.

La decadenza dell’Europa. Le vie della ricostruzione, Bemporad, Firenze 1922.

La tragedia dell’Europa. Che farà l’America?, Gobetti, Torino 1924.

La pace, Gobetti, Torino 1925.

La libertà, Tipografia Accame, Torino 1926.

Bolscevismo, fascismo e democrazia, Il Solco, New York 1927.

La democrazia, Editions contemporaines, Paris 1932-33.

L’inquiétude du monde, Les editions Donoel et Steele, Paris 1934.

La désagrégation de l’Europe, Spes, Paris 1938.

Meditazioni dell’esilio, E.S.I., Napoli 1947.

Rivelazioni. Dramatis personae, E.S.I., Napoli 1948.

Meditazioni e ricordi, Mondadori, Milano 1953.

Diaro di prigionia (1943), Laterza, Bari 1967.

Scriverò un libro di memorie? (1942), in Articoli e discorsi. Inediti vari. Documenti, t. I, Laterza, Bari 1979.

Nitti contro Giolitti (1944), in Articoli e discorsi. …, t. II, Laterza, Bari 1980.

 

*Bibliografia estratta da F. Barbagallo, Francesco Nitti, UTET, Torino, 1984

NITTI Francesco Saverio

http://www.cittadimelfi.it/personaggi-storici.html

Uno dei più grandi uomini politici di tutto il meridione e della nostra città, statista e studioso di fama internazionale nasce a Melfi nel 1868 da famiglia non agiata. Dal 1890 al 1919 la sua vita si divide tra lo studio e l’attività politica. Dopo essersi laureato nel 1890 con una tesi sul “Socialismo cattolico” nel 1899 viene nominato professore di Scienze della finanza e Diritto finanziario nell’Università di Napoli. Nel 1904 viene eletto deputato del Collegio di Muro Lucano e nel 1911 Giolitti gli affida il dicastero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, contribuendo in maniera decisiva alla nascita dell’ I.N.A. Rieletto deputato nel 1913, un anno dopo si dimette. In piena guerra (1917) è Ministro del Tesoro dedicandosi con impegno ai problemi della guerra e della ripresa economica. Sempre ministro nel suo dicastero si impegna sui temi quali il mantenimento dell’ordine, lo sviluppo di una efficace ripresa produttiva in un clima di accordo tra capitale e lavoro.

Nel 1920, in un clima di violenti scontri di classi sociali, organizzazioni sindacali e politiche, accusato da una parte di incapacità a restaurare l’ordine, dall’altra di azione repressiva in tutela della classe borghese, Nitti si dimette da Presidente del Consiglio. Durante le elezioni del 1921, comincia ad essere bersaglio delle violenze dei fascisti.

È rieletto, ma si ritira nella sua casa di Acquafredda nei pressi di Maratea. Dopo il 28 Ottobre del 1922 si rifiuta di partecipare ai lavori parlamentari e non riconosce la legittimità del governo fascista. Nel 1923 alcune centinaia di squadristi danno l’assalto alla sua abitazione romana devastandola. Nitti decide di lasciare l’Italia.

Il 5 Maggio del 1925 scrive al Re sottolineando le responsabilità della monarchia per la sua convivenza con il regime liberticida. Nel 1926, a Parigi, continua l’attività di organizzazione antifascista.

Nel 1943 è prelevato dalle SS e deportato in Tirolo. Torna libero nel Maggio del 1945. È eletto all’Assemblea Costituente; poi è Senatore di diritto. Non partecipò alle elezione del 18 aprile 1948 perché affranto dal dolore della morte della moglie, Antonia Persico, avvenuta due mesi prima.

In quanto ex Presidente del Consiglio fece parte del Senato della Repubblica dal 1948 al 1951. L’ultima sua battaglia politica la combattè nelle elezioni della capitale quando, nel 1952, capeggiò una lista civica. Non vinse e stette all’opposizione fino al 20 febbraio 1953, giorno della sua morte a Roma causata da una bronco-polmonite: aveva 85 anni.

Ci ha lasciato numerose opere, ricordiamo: L’emigrazione italiana e i suoi avversari (1888), La vita italiana nel Risorgimento (1899), Il Socialismo Cattolico (1891), La popolazione e il sistema sociale (1894), L’Italia all’alba del secolo XX (1901), La città di Napoli (1901), Napoli e la questione meridionale (1903), Il porto di Napoli (1907), L’Europa senza pace (1921), La decadenza dell’Europa (1922), La tragedia dell’Europa (1923), La pace (1925), La libertà (1926), L’inquietudine del mondo (1934), La disgregazione dell’Europa (1938), Rivelazioni. Dramatis personae (1948).

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