CLAPS TOMMASO

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CLAPS TOMMASO

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Avigliano, 13 luglio 1871 – 6 agosto 1945

Giurista, poeta e storico, Insegnò diritto civile presso l’Università di Camerino, cattedra che abbandonò per tornare a Potenza dove fece carriera come magistrato, fino ad essere nominato primo presidente di Cassazione.

Tommaso Andrea Beniamino Claps nacque ad Avigliano il 13 luglio 1871, figlio di Timoteo Remigio Claps e Angela Maria Masi, deceduta pochi giorni dopo il parto.

Fondamentale fu per il giovane l’insegnamento dello zio don Andrea Claps, che Tommaso successivamente associò ai suoi maestri Emanuele Gianturco e Nicola Coviello. Prediligeva gli studi umanistici e nel 1895 conseguì la laurea in legge. Nel 1896 pubblicò l’opera Studi e considerazioni sulla natura giuridica del pegno, dedicandola allo zio.

Insegnò diritto civile presso l’Università di Camerino, cattedra che abbandonò per tornare a Potenza dove fece carriera come magistrato, fino ad essere nominato primo presidente di Cassazione.

Pubblicò altri scritti, non solo di carattere giuridico ma anche letterario, come per esempio alcuni studi su Orazio.

Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo i bombardamenti degli Alleati sulla città di Potenza, Claps tornò nella dimora aviglianese. Nonostante le ristrettezze e i disagi derivanti dalla guerra fu un alto esempio di integrità morale per tutti i suoi concittadini.

Morì il 6 agosto 1945 ad Avigliano.

Tommaso Claps, sensibile alla terra natia, ad essa dedicò sempre il proprio interessamento occupandosi della cultura e della storia del suo paese. A Tommaso Claps è dedicata la biblioteca della Società operaia di Mutuo Soccorso di Avigliano, ricca soprattutto di testi giuridici e la scuola di Lagopesole.

Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia

https://it.wikipedia.org/wiki/Tommaso_Claps

TOMMASO CLAPS: SCRITTORE VERO, INSIGNE MAGISTRATO

DI REDAZIONE IL 20/06/2021 CULTURA

PERCORSI CULTURALI DI mario santoro

“Rispetto a tanti uomini illustri che hanno avuto i natali nella nostra regione, Tommaso Claps è uno dei pochi che fece la scelta di vivere in questa nostra terra di Basilicata, esaltandone i costumi, le tradizioni, gli usi, la storia ed amandola con profondo affetto.

Per questi suoi sentimenti divenne grande amico di Giustino Fortunato, che lo predilesse fra i tanti, e con lui condivise interessi culturali ed aspirazioni politiche per l’elevazione delle classi sociali più disagiate, in un difficile periodo della nostra storia regionale e nazionale”.
Con queste parole Gennaro Claps presenta l’autore nella edizione per la scuola (IV) del 1996 della raccolta “A pie’ del Carmine:Bozzetti e novelle Basilicatesi”.

Tommaso Andrea Beniamino Claps nacque ad Avigliano, in provincia di Potenza, nel 1871 e visse a cavallo tra di due secoli Otto-Novecento, respirandone il clima politico culturale.
Orfano di madre, già ad un mese dalla sua nascita, fu affidato, in uno con la sorella Angela Rosa Maria, alle cure, oltre che del padre, della zia paterna, Cleofe, e dello zio Andrea Claps, sacerdote e uomo buono.

Compì gli studi liceali a Potenza e quindi frequentò la facoltà di Giurisprudenza a Napoli dove ebbe maestri di Diritto assai importanti come i compaesani Emilio Gianturco e Nicola Coviello. Laureatosi brillantemente nel 1895, un anno dopo, nel 1896, a soli 25 anni, viene nominato Uditore Giudiziario e subito dopo, ottiene la cattedra di Diritto Civile nella libera Università di Camerino.
Nello stesso anno, però, abbandona la docenza universitaria e si trasferisce a Potenza “dove svolgerà tutta la carriera di Magistrato, fino alla nomina a Consigliere di Cassazione ed a Presidente della Sezione della Corte di Appello; si collocherà a riposo nel 1941 con l’onorifico grado di Primo Presidente di Cassazione, senza aver rinunciato, in precedenza, a portarsi a Firenze, prima, come presidente di Sezione della Corte d’Appello, a Venezia, poi, quale primo Presidente della Corte di Appello” come sottolinea Rosuccio Lacerenza nel suo volume: “Tommaso Claps: narratore puro, scrittore vero, testimone verace, autentica coscienza storica”.

E proprio il critico Lacerenza sottolinea la naturale propensione per gli studi umanistici e per quelli storici, la capacità di osservazione attenta e fine, l’intelligenza attiva e lucida, l’oggettiva interpretazione dei fatti nel loro svolgersi e soprattutto il piacere per la ricerca.
Proprio queste caratteristiche, notate anche da Katia Mancasi, faranno di Tommaso Claps, scrittore vero, magistrato insigne, apprezzato maestro di Diritto, “personalità poliedrica”.
Mi pare che tanto le osservazioni della Mancusi, quanto quelle di Lacerenza siano condivisibili appieno.

Non a caso lo scrittore si cimenta con articoli su varie riviste e con studi seri ed approfonditi. Possiamo ricordare il saggio “Avigliano e i suoi antichi statuti comunali” che risale al 1931 ed è pubblicato sulla rivista “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”.


Ed a proposito val la pena di riportare il giudizio critico di Nicola Tranfaglia, mutuandolo sempre da Lacerenza che giudica la ricerca “lo studio di maggior peso in campo storico, uno studio in cui Claps si allontana e molto dal suo tempo ma resta ai temi che lo appassionano… lo studioso fa trapelare la sua indiretta adesione a una concezione di socialismo che nulla ha a che fare né con il marxismo, né con gli ideali rivoluzionari bensì a qualcosa che possa segnare il progresso delle classi contadine meridionali, delle classi oppresse nelle società italiana… e, ricostruendo la lotta dei contadini di Avigliano per la libertà e l’autonomia della loro universitas, mostra di mantenere una forte speranza nel processo di emancipazione degli uomini e degli oppressi pur in un presente piuttosto oscuro”.

In verità negli anni giovanili scrisse numerosi articoli e collaborò con “Il Lucano”, uno dei primi giornali stampati in Basilicata sul quale pubblicò anche i suoi bozzetti e le novelle basilicatesi.
Nota in proposito Gennaro Claps:

“Su ‘Il Lucano’ ed altri giornali potentini scrisse molto, firmando i suoi articoli con pseudonimi: quelli di carattere letterario, le novelle e le poesie, li firmava con il nome di una supposta maestrina, ‘Maria Andreina Sordetti’, mentre gli altri di carattere giuridico politico, con quello di ‘Il Dottor Volgare’.

Alcuni si sono domandati la ragione del doppio ricorso allo pseudonimo. Qualcuno ha parlato di vezzo piuttosto diffuso, soprattutto per le donne che si cimentavano con la scrittura; altri hanno accennato ad un eccesso di modestia; altri ancora hanno anche pensato che lo scrittore non fosse del tutto sicuro della qualità dei suoi scritti; ma certamente hanno ragione quelli, e tra questi Rosuccio Lacerenza, che invece hanno visto “la lodevole preoccupazione di tutelare la sua funzione di Magistrato”, come del resto appare chiaro nella sua dichiarazione al più che amico Giustino Fortunato:

“La mia qualità di pretore mi aveva appunto persuaso a nascondermi dietro la veste della signorina Sordetti”.

Il primo lavoro di Tommaso Claps è “La vita nuova” il cui richiamo al sommo Dante è finanche troppo evidente nella titolazione.

Si tratta, come testimonia Lacerenza, di “un corpus di fogli ordinati cronologicamente (10 agosto – 29 ottobre 1890) e tenuti insieme da una pagina introduttiva, sulla quale sono riportati il titolo del lavoro ed il nome dell’autore, Maria Andreina Sordetti, pseudonimo con il quale, come abbiamo già accennato, amerà firmare altri suoi scritti nonché le novelle. In alcuni di questi fogli è presentata, sull’esempio del Manzoni probabilmente, una sorta di antefatto, secondo il quale il Claps, riordinando e pubblicando, nel rispetto di una personale aspirazione, fogli appartenenti ad un suo amico fraterno Andrea, avrebbe dato voce al sincero amore da questi provato per Lita, ‘conosciuta fanciulla ed amata con intensa passione’ in età matura ed irrimediabilmente perduta a seguito della partenza di lei per l’America, terra assai lontana”

Dunque si tratta di una sorta di antologia in qualche modo atipica con pagine di prosa e di poesia insieme ma non tutti dello stesso autore. Infatti, mentre le prose sono di Claps, le parti in versi sono di autori stranieri e soprattutto di un poeta tedesco molto vicino e caro al Nostro. Si tratta di Heinrich Heine che l’autore traduce don disinvoltura, essendo padrone della lingua tedesca.

Tutta la vicenda si muove intorno ad un nucleo centrale che è costituito dall’amore, o dal sogno di amore per Lita, vissuto come un rapporto delicato, tenero, adolescenziale, puro ed incontaminato, senza riferimenti carnali e sessuali. E’ una storia pulita che testimonia sensazioni ed emozioni, e non manca di alcune riflessioni.

Né serve a molto stabilire la vera identità di Lita, peraltro mai descritta sul piano fisico; piuttosto appare sicuramente interessante comprendere come sia stato possibile la linea di congiunzione tra Claps e il poeta Heine.

Sarebbe interessante saperne di più anche perché il carattere dei due autori appare, per quello che ne sappiamo, totalmente diverso e contrastante. Aggressivo, violento, duro, prepotente, sprezzante, ironico se non anche satirico e lontano dalla Fede, appare il tedesco e diametralmente opposta sembra essere la figura di Claps, dal temperamento misurato, riflessivo, saldo nei suoi principi e timoroso di Dio.
Ma questo forse può inquadrarsi in quello che è il carattere di molti aviglianesi capaci di affrontare e superare le sfide difficili se non impossibili come quella di tradurre le liriche del tedesco e di farlo al meglio stante al giudizio di Katia Mancusi:
“E tuttavia la versione del Claps nella resa linguistico-espressiva è intensa, vibrante, aggressiva come il testo originale pur lasciando quasi invariato l’ordito strofico tedesco. Il prodigio si realizza grazie all’ideale, pregevole dialogo intessuto con l’Heine che lo coinvolge emozionalmente ed intimamente”.

Il secondo lavoro di Tommaso Claps è “A pie’ del Carmine:bozzetti e novelle basilicatesi”.

Se qualche abbozzo di verismo verghiano era già presente nel primo lavoro, qui il riferimento all’autore siciliano è fin troppo ricorrente e la lettura può essere fatta solo tenendone conto. Del resto lo stesso Claps dichiara apertamente il senso della vicinanza e dell’appartenenza dal momento che definisce il libro “una raccolta di novelle rustiche nelle quali vagheggiando una meta di cari studi letterari non più proseguita, adolescente ancora ed ammirato della semplice arte di Giovanni Verga, cercai di ritrarre i costumi ingenui e fieri delle povere genti affaticate, abitanti i casali a pie’ del Carmine di Avigliano… sobri e forti nei loro caratteristici abiti i giorni di festa…allettati, anch’essi dalle agiatezze dell’America divoratrice, a fuggir la patria”.

La maniera di scrivere, dunque, risulta chiara nella limpidezza dello stile, nella aderenza alla realtà e alla concretezza, nel ricorso a riferimenti dialettali o vicini al dialetto per un senso di rigoroso rispetto e per una resa fedele, nella prosa, a tratti, secca, scabra, immediata, nelle descrizioni con pochi tocchi ma sempre efficaci, nella presentazione di tipi e di personaggi, nella descrizione della povertà dei luoghi e della miseria dei contadini, nel riferimento di atti religiosi, al confine con il paganesimo.

Tutto questo risulta chiarissimamente e rende bene l’idea dell’ambiente e delle persone tanto che Gaetano Salvemini ebbe a dire:” … dei contadini della sua Avigliano di Basilicata ha fatto una magnifica rappresentazione letteraria, con un insieme di bozzetti e di novelle”.
E allora ripercorriamo qualche brandello delle storie narrate dall’autore e presentiamo anzitutto un momento di buona ed efficace descrittività:

“ Ogni mattina, poi, da San Cataldo delle Caldane, da’ Frusci, da Sant’Angelo, dal Castello di Lagopesole, da Filiani, dalla Scalera, da Sant’Ilario, dallo Sterpeto e da tutti i minori casali anche più lontani, una lunga processione di donne, contadini e fanciulle scalze fino a’ garretti, co’ capelli scarmigliati e coronati di spine, si recava a pregare per tutte le chiese e per tutte le cappelle, fin su quella erta e remota del Monte, gridando a voce alta e rauca:- Grazia, Madonna de lu Carmine mia! Grazia Sant’Antonio mio! Grazia Santo Vito mio! – e così a tutti i santi del Paradiso. Innanzi andava sola una zitellona, recando in mano il Crocifisso grande della Trinità, ravvolto in un lacero velo nero; dietro venivano le altre, a due, a tre, a quattro, sotto braccia, qua e là divise da qualche pio vecchio contadino, scoperta la calva testa e scalzi per lui i ruvidi piedi; e il coro gemente procedeva instancabile nella fitta nebbia del mattino, sotto l’acqua che veniva giù sottile ed ostinata e che poi diluviava immancabilmente in sulle ore meridiane, quasi a dispetto di quelle preghiere di quei pianti di quelle grida forsennate. Le beghine dicevano che la grazia il Signore non la faceva per i peccati che si commettevano perfino durante la processione di penitenza”.

Il brano non presenta solo chiari elementi descrittivi ma ci consegna un mondo e una cultura intrisi di credenze, superstizioni, riti pagani, e al tempo stesso, manifesta l’impotenza dinanzi alle grandi avversità della natura.

Ancora sul piano della descrittività dei costumi e dei modi propri del mondo contadino e della parte più povera di esso è il riferimento che segue:

“Anche Vituccio s’era trovata la sua zita, ed era la figlia maggiore di zio Canio di Avolio. Maria Agnese, che andava pazza per lui, andava. Veramente, il padre di lei, che era un comodo massaro di pecore, non voleva acconsentire, perché Vituccio era un buon figlio, ma non possedeva nemmeno la casa e i suoi risparmi non gli bastavano a pagare la pigione. Ella però si era innamorata di lui ed accettava tutti i doni dello sposo: uncinetti di legno delicati, collane di crini, da’ bei ciondoli intarsiati su’ nocciuoli di pesca, e rocche per filare, lavorate con pazienza di santo, che erano una bellezza al solo vederle. E tutte le domeniche, non ostante le grida della madre, seduta sul poggiolo alla veneziana della sua casa, rimaneva le lunghe ore ad amoreggiare col suo Vituccio, che, sotto il sole o sotto la pioggia, se ne stava immobile come un piantone, dicevano le male lingue del vicinato.”

E non sorprenda, anche se oggi può apparire improponibile ed assurdo, il dato di realtà legato al modo di amoreggiare che si è perpetrato a lungo.

Ma Tommaso Claps insiste anche su un aspetto tipico del mondo dei semplici e del popolo di Avigliano e cioè sul senso profondo della ospitalità, in qualche situazione, esagerata fino all’inverosimile. Basti pensare alla novella, che non a caso dà il titolo alla raccolta, “A pie’ del Carmine” e che è preceduta, ed anche qui non a caso, da un’espressione latina “Lucani hospites”.

La novella ruota intorno a zio Vitovincenzo che con la sua povera famiglia sta disboscando un terreno e da qualche tempo avverte una profonda spossatezza nel corpo. Poiché i lavori stanno per finire resiste aiutato dalla moglie e dalle figlie. Appena può sta sul letto e non magia quasi più ma resiste stoicamente. Intanto cade la neve e una sera piomba a casa un forestiero che si è perduto. Zio Vitovincenzo non solo lo fa entrare e gli dà da mangiare ma gli offre anche il suo letto, tra le proteste dell’ospite che non vorrebbe accettare. Così pur con la febbre alta dorme per terra perché considera l’ospitalità sacra.

Il forestiero cedette alle cortesi insistenze: quel pan di granone massiccio e di sapore dolciastro gli fece venir l’appetito, e l’avrebbe mangiato tutto, se non avesse temuto di apparire ingordo.

Quando si fu ristorato e zio Vitovincenzo gli indicò il letto, dicendogli: – Voi coricatevi qua, ché noi ci adattiamo alla meglio per terra, il poveruomo assolutamente non voleva consentire.

Avrebbe preferito di tornare fuori, sotto la neve; non gli dovevano dare quella mortificazione. Ma zio Vitovincenzo tenne duro, non badando alle occhiate significative della moglie, la quale cercava in tutti i modi di fargli intendere che facesse la volontà dell’ospite, perché egli era ammalato e doveva badare alla sua salute, doveva badare.

Nulla valse: il forestiero fu costretto a coricarsi nel letto, opponendo invano le ultime resistenze.

E non fu tutto perché il mattino seguente zio Vitovincenzo, malgrado la febbre alta che lo porterà poi alla tomba, si premura di accompagnare il forestiero.

Tutti i racconti si snodano con naturalezza e presentano modi di dire tipicamente contadini ma tradotti in lingua italiana anche se altrove risulta particolarmente efficace il ricorso all’espressione dialettale che non può essere altrimenti tradotta, pena la incomprensione o il ricorso ad una perifrasi che rischierebbe di spezzare il filo di tensione che regge la storia:

“Allora, vedendosi perduto, ché lui le sue forze le aveva consumate e quegli era ancora fresco, Donatantonio decise di aiutarsi con l’inganno e la malizia, menando la gamba. Come Cola se ne accorse: -Co’ la gamba vuoi vegne! – ruggì –co’ la gamba! – dando libero sfogo a tutto il vigore fino a quel momento raccolto e compresso e sollevato di peso il rivale traditore, lo scaraventò furioso per terra in un attimo, sputandogli in faccia una sanguinosaingiuria”

E non manca qualche passaggio diverso e per così dire chiaramente manzoniano. Ne riportiamo uno a mo’ d’esempio con il quale chiudiamo questo percorso:

“E così il povero zio Matteo dovette lasciar per sempre la sua cara terra – Addio casa padronale abbandonata, dove nacquero Don Michele e Don Girolamo, i vecchi gloriosi, e dove tante volte si era sentito commuovere di entusiasmo a discorsi infiammati del santo amore d’Italia!
Addio piccola cappella, dove tante volte aveva visto piangere pregando donna Elisabetta, l’ultima superstite signora di quella nobile famiglia di eroi! Addio verde e fiorito giardino, dileguatesi a poco a poco nella vallata! Addio cimitero, dove sperava d’acquietare l’anima stanca! Addio cara terra adagiata superba su’ due poggi digradanti!”

FONTE “CONOSCERE LA BASILICATA”

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