NIGRO RAFFAELE

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NIGRO RAFFAELE

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Melfi, 9 novembre 1947

Giornalista, scrittore, poeta e sceneggiatore; vincitore del Supercampiello nel 1987 con I fuochi del Basento, un romanzo tradotto in molti paesi e che ad oggi ha superato il milione di copie, ottenendo successivamente per Malvarosa premi come Mondello, Biella, Flaiano, Selezione Campiello.

Raffaele Nigro, giornalista, scrittore, poeta, autore e sceneggiatore, nasce a Melfi il 9 novembre 1947. Già da bambino sente forte il richiamo della scrittura e della narrazione. Alle elementari le mani sono spesso macchiate d’inchiostro mentre da adolescente va alla ricerca di racconti e fiabe popolari, girando tra le strade del suo paese allietate dai canti. Apprende quelle storie dai nonni o dai cantastorie, poi le avrebbe riferite ai compagni. Sono i tempi della cultura orale grazie alla quale il giovane prende dimestichezza con un’esposizione che ricorda i tempi passati, che sa dare “voce” ai silenzi e significato alle pause.

È un mondo inafferrabilmente concreto che affascina il giovane al punto da condizionare la futura produzione letteraria imperniata di realismo, metafora, sperimentazione, antropologia e viaggio. Frequenta il Liceo scientifico a Melfi e a Bari l’Università dove si laurea in Pedagogia con la tesi “Comunicazione e intersoggettività in Dostoevskij”. Nella città pugliese lavora per la RAI dove intraprende la carriera di programmista-regista dal 1979 al 1989 quindi di direttore e caporedattore della sede regionale.

All’università ha il primo vero incontro con la scrittura. Nel ‘75 è cofondatore di un gruppo di poesia sperimentale chiamato “Interventi Culturali” grazie al quale si confronta con una poetica innovativa che usa le parole per esprimere segni e i suoni, il lessico orale appreso nella sua Melfi. I versi gli consentono di comunicare il suo mondo interiore, il dialogo che ha con sé stesso. Dirà più avanti: “La poesia è raccontare come noi siamo e come noi ci avvertiamo di fronte al mondo che cambia”.  La raccolta poetica in dialetto del 1981 Giocodoca (Schena Ed.) ne è l’esempio. A Bari, città che vive un alto fermento culturale, ha l’incontro con il teatro, sempre sperimentale. Nel 1980 debutta come drammaturgo con Il Grassiere, allestito dal teatro Abeliano l’anno seguente. Seguono Il santo e il LeoneHohenstaufen dedicata a Federico II di Svevia, portate in scena nel ‘86 dal gruppo teatrale di Giorgio Albertazzi. Successivamente scrive BandeDiscaricaTutti i colori del Novecento.

Parallelamente si interessa di letteratura. L’allontanamento gli ha consentito anche di maturare uno sguardo più oggettivo sulla realtà da cui proviene. Nel ’76 sposa Livia e nello stesso anno pubblica le risultanze delle sue ricerche etno-antropologiche nel volume Tradizioni e canti popolari lucani: il melfese (ARCI-UISP Melfi) ed etno-musicologiche negli LP U timb jè nnuvl del ‘77 e La serpa lucend del ’81, entrambi eseguiti dal gruppo musicale barese “Compagnia dell’Arco”. Afferma: “Voglio raccontare come queste terre non possono essere dimenticate e come sia necessario riprendere il dialogo con la storia ma anche con un’idea di tempo fatta di passato, presente, futuro”.

All’attenzione per i canti popolari affianca quella per la letteratura locale di cui vuole dimostrare l’alta valenza nel panorama culturale italiano. I tanti documenti scoperti negli archivi pubblici e privati lo mettono di fronte a notizie inedite che necessitano di accurate analisi storiche e filologiche. Nel ‘79 esce così Centri intellettuali e poeti nella Basilicata del secondo Cinquecento (Interventi Culturali Ed.) seguito l’anno dopo da Basilicata tra umanesimo e barocco (Levante Ed.). Redige inoltre saggi sullo storico venosino Giacomo Cenna e il filosofo materano Antonio Persio vissuti entrambi tra il ‘500 e il ‘600, quindi su Donato Porfido Bruno, Maria Carlucci per poi approfondire il Novecento con Rocco Scotellaro ed altri poeti meridionali.

Nel frattempo, tiene viva l’originaria voglia di raccontare e così dà vita ad una narrativa dove la Storia e i personaggi, veri ed inventati, si muovono all’interno di luoghi e situazioni nitidamente descritte. Nell’86 esordisce con i racconti di A certe ore del giorno e della notte (Bastogi Ed.) a cui fa seguito I fuochi del Basento (Camunia Ed.) il fortunatissimo romanzo storico con cui vince i Premi “Napoli” e “Campiello” nell‘87. Storico è anche il romanzo La baronessa dell’Olivento (Camunia Ed.). Sviluppa per di più la scrittura del viaggio alimentata dalla professione che lo porta a spostarsi da Bari, città in cui vivrà per quasi 50 anni, a Roma e in giro per il Mediterraneo realizzando servizi per i programmi “Bell’Italia” e TGR Mediterraneo. Nel 1991 esce il saggio Viaggio in Puglia (Laterza Ed.) e il romanzo Il piantatore di lune (Rizzoli Ed.). Il viaggio è altresì nel romanzo Ombre sull’Ofanto (Camunia Ed.) del ’92 e in Sopra i tetti del Bradano e del Basento (La Bautta Ed.) del ’93, saggio scritto come coautore ed illustrato da Luigi Guerricchio. E ancora nel romanzo Dio di levante (Hacca Ed.) del ‘94 e nel saggio Viaggio in Basilicata (Adda Ed.) del ’96.

Nel ‘97 esce il romanzo Adriatico (Giunti Ed.) finalista al Premio Strega ’98 e nel ’99 il saggio Francesco Berni edito dall’Istituto Poligrafico dello Stato con il quale pubblica nel 2003 anche Burchiello e burleschi. Il nuovo millennio parte però con Desdemona e Cola Cola (Giunti Ed.) favola moderna in cui l’autore affronta la migrazione e l’integrazione, tematiche tra l’altro già intraprese. Seguono nel 2001 i romanzi Viaggio a Salamanca (Aragno Ed.) e Diario Mediterraneo (Laterza Ed.) mentre Gli asini volanti (Aragno Ed.) è del 2003. Il 2005 è la volta del romanzo di successo Malvarosa (Rizzoli Ed.) che anticipa di un anno il saggio storico Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri (Rizzoli Ed.). Seguono il saggio Novecento a colori (Progredit Ed.) 2008, il romanzo Santa Maria delle battaglie (Rizzoli Ed.) 2009 e Memorie e disincanti. Uomini e scritture del Mezzogiorno (Di Girolamo Ed.) 2010, libro che precede di 10 mesi Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway (Rizzoli Ed.). Un’aurea di mistero avvolge questo romanzo dai risvolti metaforici in cui l’autore riporta una confidenza a lui fatta durante un viaggio dalla scrittrice Pivano circa la permanenza di Hernest Hemingway in terra lucana alla ricerca di animali esotici.

Nel 2012 ritorna al teatro e scrive con il regista Cosimo Damiano Damato e il cantautore Lucio Dalla il musical Il bene mio. La vita e le canzoni di Matteo Salvatore, andato in scena al Petruzzelli di Bari, di cui il saggio Ascoltate signore e signori. Ballate banditesche del settecento meridionale (Capone Ed.), in uscita nello stesso anno, sembra il normale prolungamento per via del comune amore per il mondo dei cantastorie. Di altro tenore è invece Il custode del museo delle cere (Rizzoli Ed.) del 2013, romanzo di formazione con un’impronta politica dove l’autore fa coesistere l’epoca presente con il passato.

Nel 2015 è presidente a Melfi del Parco Letterario “Federico II di Svevia” con cui pubblica come coautore i volumi Augustali. Anima propositiva degli altri Parchi lucani, plaude alla valenza culturale di tali realtà che consentono alle testimonianze letterarie, artistiche, architettoniche e paesaggistiche di parlare dei territori, al pari delle “Case della memoria” che rimandano al privato del noto proprietario, utile per una comprensione piena del suo operato.

Seguendo il filo della memoria troviamo Narratori cristiani di un Novecento inquieto (Studium Ed. – LUMSA Università) 2016, in cui oltre ai ricordi adolescenziali trascorsi in famiglia, vi è la riconoscenza verso coloro a cui deve la sua formazione umanistica. Intellettuali che ha personalmente conosciuto e di cui traccia un ricordo serio e scanzonato: Montesanto, Crovi, Fabbri, Santucci, Festa Campanile, Saviane, Pomilio, Doni, Chiusano, Citeroni, Cattabiani, Fortunato, Pasqualino, Manna, Edda Ducci sua docente di Filosofa dell’Educazione all’Università di Bari che ha incoraggiato i suoi primi passi da scrittore.

Nel 2019 esce Il mondo che so. Viaggi in Italia (Hacca Ed.) dove, tra le altre cose, si riporta l’incontro con Oriana Fallaci, avvenuto a Pontremoli (Massa-Carrara), la quale gli suggerisce, invano, di trasferirsi a New York. Il senso del testo orientato alle specificità della penisola ha come naturale estensione i saggi Civiltà appennino. L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni e Le vie dell’acqua. L’Appennino raccontato attraverso i fiumi (Donzelli Ed.), usciti entrambi nel ///2020 e di cui è uno dei curatori. Le montagne, le aree interne ritornano ad essere le protagoniste nella nuova visione dell’economia sostenibile, baluardo contro lo spopolamento. Egli considera l’Appennino il luogo da cui bisogna partire per formarsi ma a cui bisogna tornare per continuare a dare linfa vitale ad una cultura che non può morire.

Il 2020 segna anche il ritorno alla poesia. Pubblica Gli dei sono fuggiti (Progredit Ed.) raccolta di versi scritti in quarant’anni. In quella che definisce la “discarica differenziata della memoria” egli fa “vivere” gli dei scomparsi: amici letterati, il mondo culturale della sua generazione e quello fantasioso della sua infanzia, le speranze di chi, anche rischiando molto, lascia i luoghi natii per migliorare la sua vita. Riferendosi ai migranti riflette: “Sono persone che non riusciranno a darti ciò che abbiamo perduto ma che forse negli occhi hanno ciò che noi ancora cerchiamo”.

La cinematografia. Nel ‘97 cura la sceneggiatura de Il viaggio della sposa, regia di Sergio Rubini; nel 2004 partecipa al film Darsi alla macchia di Fulvio Wetzl, ispirato alla vita del brigante post-unitario Carmine Crocco e nel 2008 è sceneggiatore de La luna nel deserto, regia di Cosimo Damiano Damato, cortometraggio d’animazione liberamente ispirato al suo romanzo Desdemona e Cola Cola. Si cimenta per di più, con la recitazione interpretando ironicamente sé stesso in una puntata della fiction di Telenorba, Il Polpo.

Nonostante i suoi vasti interessi resta pur sempre un autore di cronaca che osserva i tempi in cambiamento. Firma articoli di AvvenireIl MattinoLa Gazzetta del MezzogiornoCorriere della Sera ed è tra i fondatori delle riviste FragileIn/OltreIncroci e Appennino. Per l’intensa attività di giornalista e scrittore, corredata da ulteriori pubblicazioni e collaborazioni, ottiene prestigiosi Premi letterari e cittadinanze onorarie da diversi comuni lucani e pugliesi. Grazie all’opera di traduzione dello scrittore francese Bernard Simeone i suoi libri fanno il giro del mondo. Nel 2003 l’Università di Malta gli conferisce la laurea honoris causa in Scienza della Comunicazione e nel 2005 l’Università degli studi di Foggia quella in Lettere e Filosofia. Tali meriti lo portano alla nomina nel 2016 di Vicesindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Melfi e dal 2019 ad essere Ambasciatore alla Cultura dello stesso Comune.

Anna Mollica

https://lasiritide.it/article.php?articolo=16620

9 settembre 1921 Cittadinanza onoraria ai membri del Comitato per il Millenario a Melfi

 

Cittadinanza onoraria ai membri del Comitato Nazionale per le celebrazioni del millenario di fondazione della città fortificata di Melfi (1018-2018). Nel corso dell’assise consiliare di questa mattina il sindaco di Melfi, Livio Valvano, ha conferito al Prof Cosimo Damiano Fonseca, al Prof. Pietro Dalena, al Prof Francesco Panarelli ed al Prof Raffaele Nigro la massima onoreficenza cittadina. Presente alla cerimonia il Sen. Ortensio Zecchino già più volte Ministro della Repubblica e specialista in storia del diritto medievale.

“Personalità eccellenti del mondo della cultura – ha detto Valvano – con particolare riferimento alla storia per aver promosso una ricerca scientifica, divulgato e fatto conoscere la Città di Melfi, facendo risaltare l’importanza e la bellezza della Città ripercorrendo le varie epoche della sua storia ed in particolare quella Longobardo-Bizantina, Normanna e Sveva, ponendo particolare attenzione ed esaltando il valore altissimo del suo patrimonio storico-artistico e culturale e la preziosità dei suoi monumenti”.

(omissis)

 

RAFFAELE NIGRO

 

Originario di Melfi, Raffaele Nigro vive a Bari dal 1967, dove è stato allievo di Michele Dell’Aquila e di Edda Ducci. Laureatosi con una tesi sulle strutture narrative di Theodor Dostojevskij, ha scritto saggi su Francesco Berni e sul Burchiello per il Poligrafico dello Stato, pubblicando una serie di romanzi con Camunia, Mondadori, Giunti e Rizzoli.

Si è aggiudicato il Supercampiello nel 1987 con I fuochi del Basento, un romanzo tradotto in molti paesi e che ad oggi ha superato il milione di copie, ottenendo successivamente per Malvarosa premi come Mondello, Biella, Flaiano, Selezione Campiello.

Per Rizzoli ha pubblicato anche un saggio sulla letteratura internazionale sul banditismo e da ultimo un saggio sulla Letteratura dell’Inquietudine nel Novecento italiano. Testi che gli hanno valso le lauree ad honorem in Lettere e in Sociologia delle università di Foggia e di Malta.

Giornalista Rai, ha scritto per il teatro e il cinema, lavorando con Arnoldo Foà, Sergio Rubini, Michele Placido e Giorgio Albertazzi, è stato Direttore e Caporedattore della sede Rai della Puglia e ha accettato di lavorare a Melfi come assessore alla Cultura, prodigandosi per ottenere il riconoscimento.

Libri di Raffaele Nigro

 

(Melfi, Potenza, 1947) scrittore e saggista italiano. La ricca produzione saggistica riguarda soprattutto la storia e la cultura di Basilicata e Puglia (Basilicata tra Umanesimo e Barocco, 1981). I toni dell’epopea popolare si affermano nel romanzo storico I fuochi del Basento (1987, premio Campiello); mafia e corruzione sono invece i temi di Ombre sull’Ofanto (1992, premio Grinzane); corposo romanzo che rivisita i «cunti» fantastici seicenteschi è Dio di Levante (1994); Diario mediterraneo (2000) affronta il tema dell’incontro-scontro tra le culture che si affacciano sul «mare nostrum»; Malvarosa (2005) dipinge un meridione nel difficile passaggio alla modernità. È autore anche della raccolta di racconti I piantatori di Lune (1991).

 

Civiltà Appennino. L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni

Raffaele Nigro, Giuseppe Lupo, Donzelli 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway. Raffaele Nigro  Rizzoli  2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Viaggio in BasilicataRaffaele Nigro,  Adda, 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

Poeti e baroni nel Rinascimento lucano, Raffaele Nigro, Osanna Edizioni1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Puglia e il Mediterraneo. Dialoghi mediterranei. Ediz. illustrata, Raffaele Nigro, Adda 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli dei sono fuggiti, Raffaele Nigro, Progedit 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

https://www.giornaledipuglia.com/2021/10/libri-raffaele-nigro-racconta-federico.htm

Libri: Raffaele Nigro racconta Federico II di Svevia con il ‘Il cuoco dell’imperatore’ 10/24/2021 AM  Cultura e SpettacoliLibri

LIVALCA – Dopo essermi immerso per 4 giorni nelle 750 avvincenti, entusiasmanti, graffianti, ‘pungenti’ pagine del romanzo «Il cuoco dell’imperatore», “La nave di Teseo”, Milano 2021, pp. 752 e 22,00, mi sono concesso una considerazione da ‘brigante’: quel testo poteva averlo scritto solo uno figlio ‘unico’ nato ai piedi del Vulture e precisamente in una località denominata Melfi, che vedeva segnare i propri confini da un fiume chiamato Olivento. L’origine del nome Melfi, secondo lo studioso Mario Cosmai, potrebbe essere da melpa (fiume) nome di origine mediterranea che, con il sostegno del suffisso pa (presso) di chiara origine messapica, ci chiarirebbe l’arcano.

Ora dovrei parlarvi del senatore Giacomo Racioppi (Moliterno 1827- Roma, 1908) e della sua «Storia della Lucania e della Basilicata», ma lo cito solo per stimolare coloro che hanno voglia di approfondire e chiedersi perché nel 2011 è stato inserito tra i “Migliori 150 servitori dello Stato” , in occasione del 150 anniversario dell’Unità d’Italia (…nel tempo andato una giovane insegnante che stimavo – posso affermare ricambiato! – mi chiese se mi sentissi bene dopo un certo comportamento ed io risposi che quando mi comportavo bene, mi sentivo bene; quando mi comportavo male, male. Ci fu un piccolo dibattito se fossi in grado di giudicare il mio comportamento e, scoprii, che la frase da me pronunciata, era attribuita… ad Abraham Lincoln).
Raffaele Nigro per bocca di Guaimaro delle Campane, non solo cuoco di Federico II, ci narra di un uomo complesso ed eclettico; di un politico accorto, avveduto, ma puro ed ingenuo; di uno studioso colto, erudito, sapiente e a volte ‘impreparato’; di un imperatore ambizioso, conquistatore e pur poco propenso alla… violenza ( non penso che alcuni suoi figli e Pier delle Vigne siano in sintonia con questo giudizio!). Un personaggio su cui molto si è scritto (le più curiose e stimolanti leggende ‘fiorite’ sul figlio dell’imperatore Enrico VI e di Costanza d’Altavilla sono state narrate da Saverio La Sorsa) e su cui molti continueranno a farlo nei secoli a venire.

Per i molti miei lettori, prima amici, che acquisteranno il libro ravvivo alcune notizie utili sul personaggio, anche per facilitarne la lettura. Federico ll nasce a Iesi il 26 dicembre del 1194 dai genitori sopracitati; nel 1197 muore il padre e lui passa sotto la tutela della madre; nel 1198 viene incoronato re di Sicilia e la madre, sentendo prossima la fine – infatti muore pochi mesi dopo nello stesso anno – lo affida al pontefice Innocenzo lll. Nel 1215, a solo 21 anni, viene incoronato in Aquisgrana e l’anno successivo, alla morte del pontefice tutore, inizia il suo personale percorso politico. Dal momento che Nigro inizia il suo romanzo con queste parole: «Nel 1208 o 1209, alla festa di San Giuseppe artigiano, dovetti fuggire dal paese…», ritengo giusto precisare che proprio nel 1209, ad appena 15 anni, lo stupor mundi – precoce in tutto! – sposa la venticinquenne Costanza d’Aragona, che due anni dopo gli darà il figlio Enrico. Costanza muore nel 1222, mentre Enrico, schieratosi contro il padre, finisce i suoi giorni nel 1242 nella prigione in cui Federico ll lo aveva fatto rinchiudere. Il nostro imperatore nel 1225 sposa la giovanissima, appena 13 anni, Jolanda di Brienne che gli porta in dote il titolo di regina di Gerusalemme. La ragazza tre anni dopo muore, pochi giorni dopo aver partorito il figlio Corrado. Nello stesso 1225 il nostro irrequieto puer Apuliae aveva avuto un figlio di nome Riccardo dalla nobildonna Manna da Castanea. Chiaramente vi sono stati altri figli – Enzo, Margherita, Enrico Carlo, Costanza, Selvaggia, Biancafiore ecc. ecc. di cui non sono in grado di ricostruire l’albero genealogico – e amori, ma mi piace solo sottolineare che Federico riconobbe tutti i figli illegittimi, li fece crescere a corte e distribuì loro incarichi e titoli da bravo pater familias. Forse fu per questo che nel 1224 fondò l’Università di Napoli, in modo da permettere alla sua prole di istruirsi in loco ed evitare il viaggio verso Bologna, università fondata nel 1088 e considerata la prima del mondo occidentale. A Castel Fiorentino, località tra Torremaggiore e San Severo, muore il 13 dicembre 1250 debellato da non precisate febbri intestinali. Secondo alcune fonti fu avvelenato, secondo altre il destino era compiuto. Si racconta che l’imperatore evitava accuratamente di passare da Florentia perché gli era stato predetto che la sua eventuale scomparsa era da mettere in relazione con un fiore (ecco svelato perché all’inizio ho parlato di leggende ‘fiorite’), per cui quando seppe che si erano accampati a Castel FIOREntino intuì che poteva essere giunta la sua ora.

Nigro fa partire il suo romanzo con la storia di un giovane signore, Guaimaro delle Campane, che è costretto a lasciare la sua Melfi, luogo in cui la famiglia era conosciuta per possedere da più generazioni una fonderia atta alla fusione dei metalli, perché, avendo assistito ad un omicidio, non era in grado di dimostrare la sua innocenza (…qualcuno potrà obiettare che sono passati otto secoli invano, dal momento che anche oggi un innocente si sente colpevole perché “Dat veniam corvis, vexat censura columbas, tradotto la critica-giustizia risparmia i corvi e tormenta le colombe” trova qualche difficoltà a dimostrare la sua onestà). Il nostro Guaimaro opta per una fuga poco onorevole ma salvavita e si arruola, dopo qualche peripezia, alla corte errante di Federico II.
Raffaele Nigro ha un dono innato, che negli anni ha affinato con dedizione ed impegno, che lo rende capace di scrivere di getto sfruttando una fantasia ‘galoppante’ e pur imprigionata in regole matematiche che lo portano sempre a trovare la formula giusta per il suo ‘teorema’: Raf, come lo chiamano gli amici, possiede il ‘demone’ innato della scrittura.

Con illuminata, pragmatica intelligenza Nigro ha diviso il libro in 173 piccoli capitoli, utilissimi per coloro che, avendo letto il testo a puntate, non perderanno la consequenzialità di ciò che si è appreso (…mi piacerebbe credere che si sia ispirato ad una mia idea, escogitata per un libro di Giorgio Saponaro, ma questo evitiamo di raccontarlo…). Mi ha stupito non poco vedere un capitolo dedicato ad Ibn Sina e sarei felice se si fosse rifatto ad una pubblicazione del filosofo Giorgio Scrimieri «Dagli studi su Avicenna Ibn Sina» pubblicato da Levante nel 1973: uno dei tanti testi da cui si è ‘abbeverato’ nel regno di Mario Cavalli. Guaimaro delle Campane, che d’ora in poi indicheremo con il solo nome, si trovava in Sicilia al seguito di Federico e aveva avuto ordine dalla fantesca fidata dell’imperatore, la bella e tosta Mariaspina che lui sposerà in seguito, di preparare un infuso ed una corona di agli per allontanare i vermi che insidiavano la digestione del sovrano. Nell’attesa che il suo intruglio facesse effetto – non è dato sapere quale sarebbe stata la sua sorte in caso negativo dell’esperimento, ma penso che il lettore abbia capito – si era dedicato ai libri custoditi nel luogo in cui era stato ‘parcheggiato’ ed entrò in contatto con il mondo di Ibn Sina e le sue teorie medico-scientifiche. La sua attenzione fu attratta dalla mania del medico, filosofo, matematico, persiano musulmano di raccomandare sempre un continuo lavaggio delle mani (…niente di nuovo…). Alla nascita del figlio di Federico e Costanza, il principino Enrico, il nostro Guimaro rientrò nella sua veste di cuoco eccellente e si distinse per la preparazione di deliziosi brodetti di allodola per far riprendere la sovrana e dolci di mandorle e ricotta per il sovrano in modo che si inebriasse nella dolcezza.

Un capitolo in cui lo scrittore Nigro rivela tutta la sua bravura narrativa è quello dedicato a Gudrun, la tedesca di cui Guimaro si era invaghito e che voleva sposare. Morta da qualche anno Mariaspina, la donna che aveva sposato e che gli aveva donato due figli, il nostro chiese il permesso all’imperatore di interrompere il periodo di vedovanza. Con l’approvazione di Federico e una borsa di soldi provò a convincere la fiera e bella tedesca a seguirlo. Quella volta le cose non andarono secondo previsione, ma in seguito Guimaro ebbe una figlia da Gudrun e portò la moglie a Melfi dai suoi. La mamma non approvò questo breve periodo di vedovanza e Guimaro evitò di riferirle che la sua sposa era stata già maritata. Il romanzo con la sua girandola di storia enfatizzata mi ha fatto cadere tutte le certezze che avevo su Federico ll e, nell’attesa di rileggere il libro in maniera più lenta e pacata, vi riporto una frase che Nigro fa pronunciare all’imperatore e che offende un poco il mio concetto di immacolata amicizia: «Mastro Guaimaro, non c’è da fidarsi manco della propria madre. E da Pietro delle Vigne poi». Ho sempre sospettato che Pier, resosi conto che l’imperatore non pago di tutte le signore a sua disposizione avesse provato ad insidiare anche sua moglie, sia ‘esploso’ con un tipico «Federico vai a quel paese» firmando la sua condanna a morte. La fatica cui Nigro sottopone il lettore termina con tre capitoli “Gli ultimi giorni di Federico”, “Altro veleno” e “Un carro solo” e con il ritorno a Melfi di Guimaro: «Il cuore mi batteva consapevole che stavo per uscire dalla ferocia della storia e accucciarmi nel ventre di Gudrun e di quel nostro mondo addormentato».

Nigro ha dedicato il libro a Walter Pedullà “Amico e maestro che ha attraversato con ironia e acume critico il Novecento Italiano” con affetto ‘lucano’, come di chiara matrice lucana mi sembra questo suo esordio con la casa editrice fondata da Umberto Eco, Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose e Eugenio Lio e altri scrittori. Raffaele, che non si è mai fatto condizionare da eventi o ‘successi’, ha pianificato (programmista Rai agli esordi) con la sua lucida, cosciente, determinata abilità questo suo esordio nella casa editrice nata da una costola di Bompiani. In breve, vi espongo il significato di ‘nave di Teseo’.

Teseo, eroe greco figlio del re di Atene Egeo, è famoso per aver ucciso, con l’aiuto di Arianna, il Minotauro, ma a noi interessa la nave su cui compiva i suoi viaggi di piacere o le spedizioni mitiche.

La nave su cui esercitava il suo lavoro era di legno pregiato, ma dal momento che navigava senza sosta, era, come tutte le cose, soggetta al deterioramento. Da bravo artigiano del potere Teseo, ormai divenuto re d’Atene e avendo sposato Ippolita, la regina delle Amazzoni da lui sconfitte, era solito far riparare i pezzi della sua imbarcazione, senza mai prenderne una nuova. Col tempo la nave fu completamente rifatta, ma era sempre la sua nave? In conclusione, una nave rifatta, modificata nella sostanza, ma non nella forma, ha la stessa identità dell’originale. Nigro forse ci vuol comunicare che lui, anche se ha dovuto sostituire lungo il suo percorso alcuni abiti e ’mezzi’ non al passo del progresso, è sempre lo stesso lucano riservato che ascoltava in silenzio e prendeva appunti da utilizzare alla bisogna. Personalmente ritengo che Raffaele voglia farci intendere che melioribus annis non hanno modificato il suo modus vivendi. Raffaele (Guimaro) Nigro da Melfi è lo stesso Raffaele (Guimaro) Nigro da Melfi-Bari(?).

Ora, da provetto-profano quale sono, devo dire che sul libro di Nigro da un punto di vista estetico non ho niente da eccepire, anche se mi convince poco perchè non vedo quella confezione artigianale manuale che mi è molto ‘cara’ in tutti i sensi; per carità è un volume che, nonostante le 750 pagine, pesa appena 666 grammi, la copertina è di quelle che non si dimenticano (non chiedetemi il perché), risulta stampato dalla rinomata Grafica Veneta S.p.A in quel di Trebaseleche (PD)…. eppure, non avverto quel calore che mi danno i volumi pubblicati nella terra che amava Federico II, dove siamo maestri del cartonato e dei segnalibri in (finta) seta. Chi mi conosce sa che non sono ‘astioso’, ma è dal 1970 che porto avanti una mia personale battaglia chiamata ‘questione meridionale al portatore’(…ritengo non ci voglia un ‘Deus ex machina’ per capire il senso delle mie parole che non saranno ‘Vox populi, vox Dei’, ma sono ‘ Sine ira et studio’… ). Sulla mia scrivania si trova un libro pubblicato da un editore coraggioso pugliese, ma il volume di mille pagine risulta stampato a Noventa Padovana.

A Federico II viene attribuita questa frase: «Insensati come siamo, noi vogliamo conquistare tutto, come se avessimo il tempo di possedere tutto», penso di non alterare il corso della storia affermando che Federico in primis parlava per gli altri, non per sé stesso. Fermo qui il mio consueto ‘volo pindarico’ per non irritare il sempre ben disposto direttore del «GIORNALE DI PUGLIA» che mi fa andare al ‘passo’ anche senza… ‘sella’. • Il mio voto per il monumentale lavoro di Nigro risulta essere di 8¾ (in modo da non confondersi con l’«Amarcord» de l’8½ del Federico de “E la nave va” per «La strada» percorsa da «I vitelloni” che a “Roma” cercano “La dolce vita” ne “Le notti di Cabiria”) e di un 7 pieno di stima per un editore che in un lustro di attività ha saputo collezionare risultati di grande rilievo e prestigio.

La mia giornata di scrittore

 

Non c’è una giornata tipo anche per chi come me abbia la scrittura tra le sue ragioni di vita. Proprio perché la vita è tanti impegni insieme che diventano micro-tappe della quotidianità: il lavoro che ti dà uno stipendio e dunque da vivere, la spesa al supermercato o al negozio di fiducia, il giro di pizza con gli amici, gli impegni familiari e sociali, qualche viaggio di studio, di lavoro, di piacere. Insomma, non devo stare qui a riassumere la vita di ognuno. Tuttavia, c’è un prima e un poi nella scansione del mio tempo, dovuto al fatto di essere stato dipendete della Rai fino a pochi mesi orsono e di essere totalmente dipendente da me stesso oggigiorno. Finché sono stato programmista-regista e poi giornalista e poi caporedattore io ho dovuto inseguire il mondo, raccontarlo, raccontarne le cronache, organizzare le notizie, in documentari e in telegiornali. Questa attività che è sempre stata interessante e piacevolissima in quanto ti porta a stare al centro degli avvenimenti, ti getta ogni giorno sulla strada, ti induce a costruire la notizia e a seguirla passo, e dunque a narrare, ha purtroppo una economia di gestione del tempo che direi sottraente, nel senso che sottrae spazi vitali alla scrittura d’invenzione e di memoria. D’altro canto, si tratta di lavoro strictu sensu da un lato e di tempo libero da un altro.

Finché sono stato in Rai, comunque, la mia giornata ha avuto momenti diversi a seconda delle mansioni che mi si affidavano e dei ruoli che ricoprivo. Ricordo che da programmista ero sufficientemente libero, perché si trattava di individuare un progetto di documentario, assumere informazioni, costruire una sceneggiatura, uscire con una troupe per girare le immagini e infine montare. Una maniera di raccontare e descrivere anche questa, ma diversa da quella in cui la creatività è impegnata al cento per cento. Queste attività che sembrano tante e stringenti in realtà ti offrono piccoli margini di tempo libero che tuttavia per chi intenda scrivere un romanzo diventano sempre residuali e marginali.  Ricordo che scrivevo molto in auto e sui mezzi pubblici, mentre sfrecciavamo per strade di campagna o per statali e autostrade. Alla guida c’era lo specializzato di ripresa e se non nascevano conversazioni con gli abitatori del veicolo, che erano il fonico e l’operatore, potevo in qualche modo astrarmi, pensare alla trama, ai miei personaggi, a ciò che avevo già scritto. Oppure leggevo e correggevo, tagliavo intere pagine, rifacimenti che solo a sera, al rientro a casa riuscivo a trascrivere al computer. Il computer è stato il mio 113 dalla metà degli anni Ottanta. Perché mi permetteva di stampare le nuove versioni e di portarmele in una sacca al lavoro, nelle mie lunghe scarpinate per raggiungere i luoghi di ripresa. L’auto e la mia stanza sono state per anni i luoghi ideali di invenzione, correzione, di lima e di riscrittura.

Questo è continuato ma con minore intensità negli anni in cui fui novato in giornalista. I trasferimenti dalla sede della Rai ai luoghi di ubicazione degli eventi erano più brevi, il lavoro più stringente e la dipendenza da notizie scottanti e dalla messa in onda delle stesse mi costringeva a riassumere in auto gli avvenimenti, in modo da essere in sala di montaggio col pezzo già pronto, o da leggerlo subito in studio, presentare una versione radiofonica per il radiogiornale e una televisiva per il tiggì. Poi bisognava informarsi sugli sviluppi della notizia, riscriverla per i telegiornali della sera ed essere insomma sempre sul chi vive. Tra il 1989 e il 1993 ho avuto poco tempo da dedicare alla narrativa. E ancor meno ne ho avuto dal 1993 al ’97, quando da responsabile della redazione ero impegnato a costruire il telegiornale, a dettarne le regole e la successione dei servizi, a leggermi tutti i pezzi confezionati dai miei redattori, a tenere in piedi il relais mattinale per la costruzione dei telegiornali e dei radiogiornali nazionali. In quegli anni scrivevo nelle ore residuali, la sera. Mi sembrava di inseguire il tempo libero, lo cercavo come un assetato o un disperato, scrivevo e avevo sempre poco tempo per correggere, riscrivere, limare. È andata così per anni, fino al ’97, quando accaddero degli eventi per i quali fui leggermente alleggerito dai troppi impegni e in qualche modo tornai alla gestione del tempo come nel primo decennio di attività lavorativa. Oggi la mia giornata è infinita. Mi alzo tardi, una colazione sobria, le pillole mattutine e poi la scrittura. Che siano articoli per la carta stampata, che siano storie per i miei romanzi. La durata della permanenza al computer dipende dall’intensità del racconto. Se si tratta di romanzi in avvio la gestazione è lenta, i dubbi infiniti, la noia mi prende presto e il piacere della scrittura diventa quasi sempre una fatica. Ci resto poco, perché l’azione non parte, i personaggi mi sfuggono, le parole non sono quelle giuste. Allora mi distraggo ficcando la testa nel frigorifero e cercando qualche frutta, una bibita, vado cazzeggiando per casa e poi torno a scrivere, anzi a provare. Se la storia non mi prende allora non c’è cristo che tenga, devo andare. Mi vesto, esco per passeggiate che mi prendono anche due tre ore. La settimana scorsa ho cominciato a camminare fuori città e quando sono rientrato ho saputo da Google map di aver percorso venticinque chilometri di strada. Erano passate tre ore e mezza e non mi ero accorto di questa follia. Diverso è quando la storia ti prende e hai finalmente trovato il passo. La pagina ti chiama, i fantasmi scalpitano nella pancia. Ti abbandoni alla scrittura e procedi procedi per ore, senza renderti conto che l’orologio sta camminando, che ti eri ripromesso di uscire per un acquisto o per la spesa e sei ancora qui. Sei rimasto a scrivere tutto ciò che ti attraversava la mente e ora non vedi l’ora di rileggere. Ma intanto devi pranzare e poi pasticciare di qua e di là in casa. A volte mi capita di riprendere la scrittura nel pomeriggio o nel tardo pomeriggio, correggi e vai avanti nell’invenzione. Ma qui ormai è la storia che ti aiuta, ti fa da corrimano, ti guida, ti prende la mano. Devi soltanto metterle un freno.

Per molti anni la mia compagna di scrittura è stata la sera. Non volava una mosca, oppure il ronzio del televisore che arrivava ovattato dal salone mi faceva compagnia. Quante ore di solitudine ho trascorso! E non me ne sono accorto. E quante ore ho rubato e negato a chi mi stava attorno. Andavo avanti nella notte, circondato dal silenzio. Tante volte mi sono accorto tardissimo che si erano fatte le tre, le quattro. Scivolavo nel letto con soddisfazione e stanchezza, preoccupato dal fatto che a breve avrei dovuto alzarmi e andare a lavorare o preoccupato dal fatto che lo stravolgimento delle ore di sonno mi avrebbe stravolto anche il giorno successivo. Purtroppo, ho capito nel tempo, la scrittura non è amica della vita di società e di gruppo. E’ una vita parallela nella quale ti inventi un surrogato di società, ti inventi dei fantasmi che ti terranno compagnia per tutto il tempo della stesura del libro. Diserti il cinema, i party, le riunioni di condominio e di festa. Le cerimonie a cui non devi mancare diventano dei perditempo, dei furti di tempo e le persone che sei costretto a frequentare sono i tiranni che ti sottraggono ai tuoi incontri privati con una società che tu ti sei scelto, a cui tu stai dando vita. Un mondo altro che convive col tuo e che ti fa apparire in quello reale sempre come uno zombi, un marziano. Nel tuo mondo sei onnipotente, stabilisci tu l’andamento della conversazione, dei ritmi, nel mondo reale sei un invitato, una sorta di comprimario nel quale fai fatica talvolta a trovare le battute giuste, gli argomenti, il tuo posto, la ragione stessa dello stare lì, così a zingarare o a sparare giudizi di politica, frasi di circostanza, per mantenere in vita la conversazione e la necessità, a volte il piacere, di partecipare alla discussione e alla convivialità.

LE VIE DELL’APPENNINO saggio di Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo

“Le vie dell’Appennino” (Donzelli Editore) è un ebook della serie “Civiltà Appennino” scritto da Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo, e curato dalla Fondazione Appennino che, con questo saggio, torna ad accendere i riflettori sui territori interni, seguendo prospettive geografiche e concettuali valide a definire il corso della loro tutela e valorizzazione. Un nuovo corso che capovolge il punto di osservazione sulla penisola italiana, non più intesa come Nord, Centro e Sud bensì come tre “paralleli” distintivi di tre macroaree, relative alle coste adriatiche e tirreniche, e alla dorsale centrale. Da qui parte, appunto, la narrazione sull’Appennino, e più in generale sulle aree interne, custodi dell’ampio patrimonio naturalistico, paesaggistico, da millenni attraversato da generazioni di uomini e di donne che hanno lasciato tracce del loro passaggio nell’architettura, nell’arte, nella letteratura. Testimonianze da cui si è riusciti, poi, a tesserne la storia e le innumerevoli storie di tradizioni, modi di vita e devozione.

L’Appennino è contemplazione e ricerca, memoria e utopia, fuga dai miti e rifondazione di altri miti. Terra che non è più Oriente e non è ancora Occidente, eppure li contiene entrambi. Il luogo

dove le fole del vento portano le spore dei sogni. L’Appennino è il legame orografico e politico tra il Mediterraneo e l’Europa, come la grande ascissa che collega le ordinate della povertà e del benessere economico. Scrivono, così, Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo in un brano del loro «Manifesto di una scrittura d’Appennino». I due autori, partendo da quelle evidenze, intraprendono una riflessione che si estende sulle dinamiche dei popoli da sempre abituati, per motivi diversi, a spostarsi, a viaggiare, ad emigrare. Per individuare, a livello globale e locale, i motivi storici, politici ed economici alla base di contesti oggi assodati e che, invece, andrebbero rivisti alla luce di un quadro internazionale più preciso. Lupo parla, infatti, di un Medio Occidente espresso proprio da queste latitudini; Nigro spiega come, da queste latitudini, si siano aperti e inseguiti orizzonti differenti.

Il lavoro di scavo dei due autori procede nella cultura insediatasi su tali vette, per coglierne la comune anima e le variabili sociali che ne hanno stabilito la maggiore, prima, e la minore, poi, densità abitativa. Riflessioni da cui riemergono le peculiarità, dunque le differenze, tra le coste pianeggianti e le alture sconnesse, le quali hanno inevitabilmente condizionato stili e contenuti letterari di chi vi ha scritto, i sogni di chi le ha abitate, i progetti futuri. I progetti, appunto.

La progettualità è la nota distintiva su cui va basata la ripresa delle nostre montagne, delle nostre valli e colline. “L’idea di fondo è che attraverso politiche mirate e l’utilizzo delle nuove tecnologie sia possibile creare le condizioni affinché le persone abbiano l’opportunità di scegliere di rimanere, di tornare o anche di arrivare per la prima volta in un territorio che è solitamente visto come un luogo da cui partire”. Ne è convinto il cantautore Vinicio Capossela in un passaggio del suo contributo al testo.

Anna Mollica

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